NEPAL: A piedi sul tetto del mondo
di
Alessandro e Sabrina
7 - 24 ottobre 2013
Non è facile immaginare un
viaggio in Nepal senza un trek himalayano. Nella nostra prima ipotesi di
viaggio però c’era anche il Tibet e la parte montanara era decisamente ridotta,
in favore di un più equilibrato mix tra storia e natura. Poi però ci siamo resi
conto che la situazione tibetana è tutt’altro che semplice: il campo base
dell’Everest ad esempio è chiuso, per entrare nel paese bisogna essere in
cinque della stessa nazionalità ed altre stranezze simili, tanto che pensa e
ripensa abbiamo deciso di rimandare la visita del Tibet ad un prossimo viaggio.
Ma cosa fare? Come gestire tutti i giorni a disposizione? Ce la sentiamo di
fare un lungo cammino in montagna? Facciamo qualche ricerca,
sentiamo qualche esperto della zona, vediamo qualche foto… Sì, ce la sentiamo.
Anzi, l’idea di arrivare al campo base dell’Everest ci eccita parecchio e il
solo pensiero di andare ad affrontare un sentiero a dir poco mitico ci toglie
anche i più piccoli dubbi. Qualche mese dopo la nostra
decisione accogliamo con piacere anche due nuovi compagni di viaggio, gli amici
Elena e Matteo, che hanno fissato la data del proprio matrimonio a settembre e
ci confessano che sarebbero felicissimi di trascorrere la loro luna di miele
insieme a noi, a camminare tra le montagne più alte del mondo. E chi siamo noi
per deludere due sposini?! Tanto più che se qualcuno pensa di voler fare questo
come viaggio di nozze, allora merita davvero di essere accompagnato. Trovare un volo a prezzi
ragionevoli però, anche con largo anticipo, non è per niente facile.
Dall’Italia è difficile arrivare a Kathmandu con meno di due scali e le poche
combinazioni che ne prevedono uno solo costano decisamente troppo. Alla fine
riusciamo a portare a casa una soluzione un po’ scomoda, ma eccellente dal
punto di vista economico. Voleremo infatti fino a Dubai con Pegasus, un’ottima
low-cost turca (blq-saw-dxb 249,74 euro a
testa a/r, su flypgs.com), e poi fino a Kathmandu con Fly Dubai (dxb-ktm 266,96 euro a testa a/r, su
flydubai.com); a causa del doppio scalo il viaggio durerà quasi un giorno
intero.
Ma il volo è stato l’ultimo
tassello di un puzzle solo in apparenza semplice. Quando si organizza una
spedizione del genere la prima cosa da fare è decidere a quale compagnia di
trek affidarsi. L’elenco è praticamente infinito e comprendere chiaramente le
piccole differenze tra i servizi dell’una e quelli dell’altra è un lavoro
certosino che ci ha portato via parecchie settimane. Ben prima di prenotare il
volo abbiamo ristretto il campo a tre finalisti, i cui riferimenti indichiamo
per la comodità di chi volesse un punto fisso da cui partire: Hardrock Treks
and Expedition (Hard Rock Treks &
Expedition, Thamel, Kathmandu, Nepal, hardrocktreks.com, tel. 977.1.4259067, 977.1.4266592,
977.1.4263375, fax. 977.1.4263375, mobile 977.9841117524;
om@hardrock.wlink.com.np - hrt@hardrock.wlink.com.np - chrisrianne@yahoo.com),
Himalaya Journeys (himalayajourneys.com,
himalayajourney@yahoo.com), Nepal Guide Treks (nepalguidetreks.com, info@nepalguidetreks.com). La tipologia di servizio è simile
e più o meno tutti sono in grado di gestire anche il resto del viaggio, dalle escursioni agli spostamenti, dalle
prenotazioni degli hotel a quelle dei voli interni. I costi invece possono
variare enormemente, soprattutto perché esistono diverse possibilità di
alloggio sia durante il trek che nel resto del paese. La cosa fondamentale è
verificare che l’agenzia cui ci si rivolge sia tra quelle con l’autorizzazione
governativa e con tutti i “marchi” di qualità in bella evidenza: tutti li
espongono, quindi è facile controllare.
Noi
scegliamo Hardrock Treks e a posteriori possiamo dire di essere pienamente
soddisfatti della scelta. Nella quota di 940 euro a testa è compreso il trek,
il trasporto da/per l’aeroporto, il volo interno Kathmandu-Lukla e ritorno, tre
notti B&B a Kathmandu e due B&B a Bhaktapur. Nella voce “trek” è
incluso un servizio di pensione completa durante tutto il cammino (colazione,
pranzo e cena, pernotto in teahouse, tea break durante il giorno, per 11
giorni), il noleggio di un sacco a pelo e di una giacca a vento pesante, la
quota per la guida e per il portatore inclusiva di assicurazione, vitto e
alloggio per tutta la durata del trek. Sono escluse le mance, che ammontano a
circa 100 euro per la guida e 50 euro per ciascun portatore. Decidiamo
di gestire in maniera indipendente la visita di Kathmandu e Bhaktapur con le
relative escursioni: si risparmia un po’ e soprattutto si guadagna la libertà
di spostarsi a proprio piacimento senza doversi sempre confrontare con una
guida o un autista. Inoltre va detto che il costo di qualunque servizio è
bassissimo rispetto agli standard europei, quindi anche le spese più importanti
si riducono a pochi euro. Come tasso di cambio si consideri 1 euro = 135 rupie
nepalesi.
Ma
in pratica come funziona il trek? E’ la prima volta che affrontiamo un percorso
a piedi così lungo e quindi prima di partire non riuscivamo ad immaginare
concretamente la cosa. Ora che l’abbiamo fatto siamo in grado di riassumere
l’esperienza in poche parole, dal punto di vista organizzativo. Primo
punto: non esiste un numero minimo o massimo di trekkers. Si può formare un
gruppo, ma si può partire anche da soli. Insieme al gruppo c’è una guida, cui si
aggiunge un portatore ogni due persone; noi che eravamo in quattro siamo
partiti con una guida e due portatori. La guida porta solo il proprio zaino,
così come ciascun escursionista. Il portatore invece è in grado di caricare un
borsone di circa 20 kg, più il proprio bagaglio. Al portatore non deve essere
fornito uno zaino, ma preferibilmente un borsone con maniglie, completamente
impermeabile e delle dimensioni giuste per contenere comodamente una ventina di
chili di materiale. E’ facile, sicuro ed economico acquistarlo in uno dei tanti
negozi di attrezzatura da montagna di Kathmandu, soprattutto perché loro sanno
di cosa abbiamo bisogno. La
mattina si parte tutti insieme, ma presto i portatori vanno avanti per conto
proprio o insieme ad altri portatori. Talvolta li si ritrova ai punti di sosta,
altre volte no. Alla fine della tappa avanzano ancora più velocemente per
andare a controllare la disponibilità degli alloggi in cui la guida pensa di
fermarsi. In caso di problemi provano alla struttura successiva, sempre
indicata dalla guida. Per
questo motivo è importante scegliere bene cosa mettere nel proprio bagaglio e
cosa in quello del portatore, perchè lo si ritroverà solo a fine giornata. L’incertezza
legata alle condizioni meteo e alla forma fisica dei trekkers non consente
all’agenzia di prenotare tutti gli alloggi in anticipo, prima dell’inizio del
trek stesso. Questo perché, oltre al possibile blocco dei voli da e per Lukla, a
volte succede che per i più diversi motivi non si riesca a completare la tappa
raggiungendo il paesino previsto. Quindi, per evitare inconvenienti e costose
penali da parte dei lodge, la gestione delle tappe e dei relativi alloggi è
affidata alla guida che, quotidianamente, contatta le strutture che intende
utilizzare. Tutto questo non ci convince molto, ma ripensandoci forse è l’unica
maniera, o almeno la più intelligente, che ha l’agenzia di far girare tutte le
cose nel modo giusto. In ogni caso, che piaccia o no, è così. La
tipologia di alloggio, e di conseguenza il costo del trek, è variabile: si
passa dal campeggio in tenda ai lodge più ricchi, passando per le cosiddette
tea-houses, strutture di livello intermedio paragonabili ai nostri rifugi
alpini. Più si sale e più la scelta si riduce. Noi
alloggiamo in comode tea-houses ed è una scelta che rifaremmo e che consigliamo
vivamente. I rifugi, o lodge come talvolta li chiamano loro, sono gruppi di
piccole stanzette costruite attorno ad un nucleo centrale, costituito di solito
dalla sala comune. A volte le camere occupano strutture separate dal corpo
principale oppure si trovano ai piani superiori della stessa struttura. L’unico
ambiente riscaldato è la sala comune, dove si consumano i pasti e si spendono
le ore di relax al coperto. In camera non c’è riscaldamento, ma non è abbastanza
freddo da soffrire, soprattutto perché il sacco a pelo è più che sufficiente a
garantire una notte calda e serena. Più si sale e più la temperatura in camera
si abbassa: noi abbiamo misurato al risveglio circa 12-13 gradi a Namche e
circa 6-7 a Dingboche. I servizi igienici sono comuni, a volte interni alla
struttura, a volte fuori, più o meno accoglienti, a seconda del tipo di
alloggio. L’acqua
calda non esiste. Per averla si paga. A volte la doccia è regolata da veri e
propri boiler elettrici, altre volte è costituita da recipienti riempiti di
acqua bollente preparata sul momento dal personale del lodge. Quando la doccia
è esterna è situata in baracche decisamente semplici e tremendamente fredde la
sera; per questo non sempre si avrà la voglia o il coraggio di chiedere una
doccia calda. Il costo varia e cresce con l’altitudine: in media una doccia
costa 400-600 rps. Anche
l’elettricità si paga. Di solito non esistono prese di corrente libere e
funzionanti: per caricare l’attrezzatura si pagano in media circa 200-400 rps
ad apparecchio, con prezzo sempre crescente in base alla quota. Lo
stesso vale per l’acqua in bottiglia, per quella bollita, per la carta igienica
e per tutto quello che ci si trova a dover comprare. L’incongruenza che notiamo
riguarda proprio l’acqua perché spesso il costo di una bottiglia sigillata è
simile a quello di una borraccia di acqua bollita. Si tende a scegliere l’acqua
bollente per avere a disposizione una bevanda calda durante il cammino.
All’acqua abbiamo sempre aggiunto, su suggerimento della guida, alcune gocce di
cloro per prevenire eventuali disturbi intestinali o malesseri di varia natura.
Per lo stesso motivo ci è stato suggerito di evitare il consumo di carne dopo
Namche Bazar, visto che non esistono allevamenti in quota e quindi si
tratterebbe con ogni probabilità di cibo poco fresco. I
pasti sono compresi nella quota del trek, ma sono escluse tutte le bevande
diverse da quelle calde; quindi the, infusi e acqua calda vanno bene, cioè sono
free, mentre acqua in bottiglia, bibite e alcoolici no. Viene comunque sempre
suggerito il consumo di bevande calde. Che
tipo di attrezzatura serve durante il trek? O meglio… cosa abbiamo portato noi?
Oltre al già citato borsone per il portatore, serve uno zaino da circa 50-60
litri, con cover antipioggia. Serve un sacco a pelo (temperatura minima -10°C
va benissimo) ed il relativo sacco-letto, che noi avevamo in seta. Come
giacca è indispensabile avere un guscio impermeabile di media pesantezza che
verrà probabilmente usato durante tutto il trek; la giacca pesante, che loro
chiamano down-jacket, può forse servire alle quote più elevate, ma
probabilmente con i giusti strati si può arrivare in fondo anche senza. Le
scarpe ovviamente da trekking e di buona qualità, sia basse che alte, a seconda
delle preferenze: noi ne avevamo un paio di ciascun tipo ed abbiamo usato
quelle basse nei primi giorni e quelle alte quando il terreno è diventato più
roccioso e insidioso. Per aiutarsi nel cammino possono servire dei bastoncini,
telescopici o no, a scelta in base alle proprie abitudini: tra noi quattro solo
io non li ho usati. E’ inoltre utile coprirsi con berretta/cuffia e
scalda-collo ed avere a disposizione guanti leggeri per le temperature meno
basse e guanti più pesanti da usare all’occorrenza. Gli occhiali da sole da
montagna di buona qualità sono indispensabili, anche se non si pensa di
attraversare zone innevate. Pantaloni:
noi avevamo un paio di pantaloni leggeri con cerniera al ginocchio che ci sono
serviti a Kathmandu e nella prima parte del trek, un paio di pantaloni
antivento leggeri ed un altro paio decisamente più pesante. Abbiamo quasi
sempre usato i due pantaloni leggeri. Avevamo anche una calzamaglia termica che
non abbiamo mai usato in cammino, ma che a volte ci è servita per creare la
temperatura giusta all’interno del sacco a pelo. Importantissime le calze, che
devono essere calde e soprattutto comode e adatte a lunghi cammini. Secondo noi
la scelta tra merino e sintetico non è così decisiva, l’importante è la
qualità. Maglie
e magliette. E’ utile avere un abbigliamento “tecnico” con elevate capacità
traspiranti e ottimi tempi di asciugatura. Noi avevamo diverse magliette a
maniche corte, una maglia a maniche lunghe leggera, una a maniche lunghe media
ed una più pesante. Queste le abbiamo usate tutte quasi ogni giorno. E’
importante disporre di strati di diversa pesantezza, oltre alla giacca, per
gestire al meglio le variazioni di temperatura che possono intervenire in
qualunque momento della giornata, indipendentemente dalla presenza o meno del
sole. In aggiunta avevamo anche un paio di magliette termiche che non abbiamo
usato durante il trek, ma per dormire o per le ore di sosta presso il rifugio. In
caso di pioggia può bastare lo schermo costituito dal guscio, ma conviene disporre
di un ulteriore strumento di protezione che può essere un poncho, un k-way o un
ombrello, a seconda delle preferenze. Noi avevamo anche un paio di ghette che,
nostro malgrado, si sono rivelate utilissime. Servono
infine una borraccia, una buona crema solare ed un telo/asciugamano a rapida
asciugatura (esempio in microfibra). Più le usuali dotazioni mediche e per
l’igiene personale.
Anche
se in generale preferisco avere le mie cose di qualità, devo dire che i negozi
di Kathmandu sono fornitissimi. Sebbene le marche più famose siano
dichiaratamente contraffatte, la qualità media non è affatto trascurabile e la
possibilità di scelta è praticamente infinita. Inutile dire che di fronte a
prezzi quasi dieci volte inferiori ai nostri risulta difficile non lasciarsi
tentare. Noi avevamo portato da casa tutta l’attrezzatura indispensabile, ma
abbiamo arricchito il nostro corredo con numerosi articoli locali. L’unica cosa
che è meglio non dover acquistare in loco sono le scarpe, non tanto per una
questione di qualità, quanto piuttosto perché è meglio avere le proprie scarpe
collaudate rispetto ad un paio nuovo di cui non si conosce ancora il
comportamento. Per tutto il resto vale la pena lasciare un po’ di spazio nel
bagaglio perché in quei mountain-shops sembra di essere bambini nel luna park
più divertente del mondo.
Quello
che segue è il racconto dettagliato dei primi giorni a Kathmandu e del finale a
Bhaktapur, con in mezzo il lungo romanzo del trek. Quest’ultimo è di scarso
interesse pratico: chi cerca informazioni tecniche può anche fermarsi qui, chi
invece è curioso di sapere tutta la storia e vuole provare a comprendere le
nostre emozioni può armarsi di tanta pazienza e cominciare la lettura.
lunedì 7 – martedì 8 ottobre: ITALIA – KATHMANDU Lunedì pomeriggio si parte. Tra
uno scalo e l'altro arriveremo a Kathmandu dopo 24 ore e lì resteremo per un
paio di giorni, per visitare la città, i dintorni e per fare gli ultimi
acquisti per la passeggiata. Già... la passeggiata. Otto
giorni per salire e tre per scendere, tre compagni di viaggio, una guida e due
portatori, tremila metri di salita e tanta voglia di arrivare vicino alla
montagna più gigante che c'è. Se tutto va bene arriveremo a circa 5550 metri
sopra il livello del mare, cinque chilometri più in alto di dove ci troviamo in
questo momento. Che solo a pensarci mi viene da guardare in su per capire su
quale nuvola potremmo trovarci.
E mi vengono in mente tutte le
storie dell'alpinismo, Hillary e Tenzing che conquistarono la vetta 60 anni fa,
Mallory e Irvine che sono ancora lassù, tutti gli altri che hanno tentato e
tutti quelli che ce l'hanno fatta, quelli che riposano nel ghiaccio e quelli
che rimarranno sempre nei libri. Sarà l'età, ma mi
commuovo sempre pensando a tutte queste storie, alle imprese e ai fallimenti,
all'orgoglio e alla vanità, alle speranze e ai sogni, le stesse che ci
riempiono adesso che ci apprestiamo a camminare sugli stessi sentieri, a
guardare in faccia gli stessi giganti. Il tono epico può sembrare
esagerato, quasi fuori luogo, ma per noi che amiamo le montagne e le sue storie
questo è un viaggio favoloso, colossale; sarà anche solo una passeggiatina in
confronto alle imprese dei più forti, ma per noi è una cosa grande, molto grande. Confesso di provare lo stesso mix
di eccitazione e timore che accompagna gli esami. Sono tranquillo e so che
siamo preparati, ma l'altitudine è sempre un'incognita e il meteo ancora di
più. Sento che ci sono forze che non posso controllare; sento la responsabilità
di portare sull'Himalaya non solo Sabrina, che ormai è abituata alle pazzie e
mi seguirebbe ovunque, ma due ragazzi che hanno deciso di spendere il loro
viaggio di nozze camminando insieme a me. Farò di tutto per portarli fino in
cima. Sempre che alla fine non debbano essere loro a portare me.
In realtà è Fly Dubai che non mi
vuole portare. All’aeroporto di Dubai il solerte addetto del banco transiti mi
fa notare che la mia carta di credito non è la stessa con cui ho acquistato il
volo. Per forza, gli spiego, la carta è stata sostituita un paio di mesi fa.
Comunque il biglietto è stato pagato ed emesso, sono arrivato fino a qui ed ho
comunque una carta di credito valida. Niente da fare, lei non può partire. E
non mi consegna la carta d’imbarco per l’ultimo volo, quello per Kathmandu. Mi
chiede le prove dell’esistenza della vecchia carta, tipo uno scontrino di un
acquisto che ho fatto in aeroporto. Ma allora non vuoi capire: ti ho detto che
la carta non c’è, come faccio ad avere uno scontrino di oggi!? Poi
l’illuminazione: ho alcuni vecchi sms dell’avvenuto pagamento con la vecchia
carta, tra cui guarda caso quello del volo. Li mostro al fenomeno e lui mi dice
che non vanno bene perché non compare il numero completo della carta. Intanto
la navetta è partita e dopo quella un’altra, il tempo passa e noi siamo ancora
bloccati in questo camerone dei transiti. Non ci posso credere. Prima di
pensare a come eliminarlo fisicamente mi viene in mente che la carta giace
ancora sulla mia scrivania; se qualcuno potesse farle una foto e inviarmela
avremmo la prova della sua esistenza. Allora chiamo un amico (in Italia non
sono ancora le 6) e gli dico di andare a prendere le chiavi a casa dei miei
genitori, di andare a casa mia, fare la foto e tutto il resto. Sempre che la
carta sia ancora lì. Alla fine la carta si trova, mi invia la foto, la mostro all’amicone
di Fly Dubai, lui sembra tentennare, ma poi decide che anche quella non è una
prova sufficiente. Adesso gli piazzo una testata in faccia. Per sua fortuna
decide di essere magnanimo, ci rilascia un biglietto provvisorio della navetta
(senza carta d’imbarco non si sale) e ci dice di rivolgerci al banco Fly Dubai
del terminal da cui partiremo. Almeno ci muoviamo da qui e non lo vedo più.
Però come facciamo senza carta d’imbarco?! Non c’è pericolo di perdere il volo,
però il tempo passa e il margine che prima era tanto ampio adesso non lo è più.
Arriviamo al terminal, mi presento al famoso banco, la signorina vede il
biglietto provvisorio, mi fa rispiegare tutta la stessa storia, chiama la sua
superiore e le riporta il mio racconto e quella cosa fa…? La liquida con un
gesto della mano e un’occhiata come a dire “ma sei scema?” e mi stampa la carta
d’imbarco. Tempo totale trenta secondi.
Durante il volo che ci porta a
Kathmandu parliamo più dell’evoluzione del meteo che del piccolo disguido della
carta. Dal forum arrivano notizie poco incoraggianti: la settimana appena
trascorsa è stata tanto brutta che i voli da/per Lukla sono stati sospesi per
tre giorni. Chissà che caos. Ormai però dovrebbe essere tutto passato, non s’è
mai visto un monsone così lungo. E se proprio deve piovere, abbiamo ancora
qualche giorno a Kathmandu che sacrifichiamo volentieri. Arriviamo con quasi un’ora di
ritardo, poco male, e un’altra ora la perdiamo per sbrigare le procedure del
controllo passaporti. Il visto turistico per 15 giorni costa 25 dollari e si
compila direttamente sul posto. Oltre al pagamento serve anche una fototessera,
che l’addetto all’immigrazione appone sulla sua copia del visto. Nello stanzone
di arrivo non abbiamo notato macchinette per farsi la foto, quindi è meglio
portarne un paio dall’Italia, se non altro per non perdere ulteriore tempo. Sono le 20 passate, ma fuori è
caldo, molto caldo. E’ buio e all’uscita ci viene incontro un omino con gli
occhiali che a prima vista sembra un po’ Filini e un po’ un impiegato del
catasto degli anni ’80. Ha un cartello col mio nome e al nostro saluto ci fa
cenno di seguirlo verso una macchina. Al posto di guida c’è un tipo più grosso con
aria più sicura. Ci presentiamo, ma non capiamo in alcun modo il loro nome,
così come loro non capiscono i nostri. Che sia uno di loro la nostra guida? Lo
chiediamo, dicono yes, ma non capiamo se hanno capito la domanda. Durante il
percorso verso l’hotel parliamo del più e del meno, ma in particolare vogliamo
sapere le notizie sul tempo. Ci rassicurano, dicono che in effetti fino a ieri
è stato brutto come non capitava da anni, che Lukla era isolata e che dal punto
di vista delle spedizioni in montagna è stato un disastro. Adesso però è tutto
passato, oggi è stato bello e anche nei prossimi giorni lo sarà: inizia la
stagione secca. Tanto più che siamo in pieno Dashain, la più lunga e importante
festività nepalese, che dura due settimane ed avrà il suo culmine lunedì
prossimo: “Dashain… always good weather!”, dicono entrambi. E se lo dicono
loro…
Il traffico in città è pazzesco.
Veicoli, moto, pedoni, biciclette, carretti, animali… tutti ad occupare la
stessa carreggiata, disposti su due, tre, quattro, cinque file, in numero
variabile in base al momento, tutti alla massima velocità che riescono a
tenere, tutti a suonare un clacson, una trombetta o qualsiasi altra cosa
rumorosa. Lo spostamento di una fila comporta lo spostamento in parallelo di
tutte le altre, se un’auto evita un pedone tutte le altre di lato fanno
contemporaneamente lo stesso movimento, fino alla zona destinata a marciapiede.
La cosa incredibile è che nessuno tocca nessuno, non ci sono contatti o
discussioni, ognuno semplicemente va dove deve andare. Uno qualunque di noi
sarebbe morto o coinvolto in un incidente in meno di cinque minuti. Le arterie
principali sono asfaltate, ma i lati delle stesse e le strade secondarie sono
in terra battuta, così il passaggio dei veicoli genera una nebbia sabbiosa che
impasta la bocca e rende l’aria pesante. Capiamo così perché molti bagnano la
parte di strada di fronte alla propria abitazione o negozio. Ci vuole più di mezzora per
arrivare all’hotel (Kathmandu Prince
Hotel, Thamel, Chhetrapati, G.P.O. Box: 8974, CPC 005; tel. 4255961-4255282,
fax. 977.1.4255282; ktphotel@wlink.com.np; kathmanduprincehotel.com)
superando incroci micidiali e ingorghi apparentemente impossibili. Tempo di
andare in camera, posare i bagagli e via usciamo per andare a cena e fare un
primo giro esplorativo. Prima però salutiamo l’omino della macchina che è
ancora lì che ci aspetta (vuoi che sia proprio lui la guida?!): dice che
domattina alle 8:30 ci passerà a prendere per andare in agenzia a fare la
riunione informativa per il trekking. Siamo un po’ spaesati, è
inevitabile visto che siamo arrivati da un minuto, ma con la mappa in mano
riusciamo a capire dove ci troviamo e dove si trova Durbar Square, il cuore
della città. Sembra una sciocchezza, ma orientarsi non è scontato perché le
strade non hanno nome e quelle che sulla carta sembrano viali sono in realtà
stradine di terra schiacciate tra i palazzi. Con queste premesse trovare uno
dei ristoranti consigliati dalla Lonely è impossibile, ma in fondo
chissenefrega: basta infilarsi in un posto pieno di gente locale. Solo che di
posti pieni di gente non ce n’è, perché è tardi ed è quasi tutto chiuso.
Vediamo un cartello che ci sembra quello di un ristorante, il giovanotto che ci
sta sotto ci invita ad entrare e così facciamo. Ci conduce su per una scaletta
e… ma questo non è un ristorante! Siamo in una grande stanza con tre tavoli e
alcune persone sedute, altri chiacchierano con loro, ma non sembrano ospiti,
sembrano amici o parenti. Vuoi vedere che questa è casa loro!? Una signora ci
fa sedere su un divanetto e ci consegna un foglio che dovrebbe sembrare un
menu. Ordiniamo qualcosa che ci sembra assomigliare a quanto letto sulle guide
e per ogni cosa che ordiniamo questa fa un cenno ad un ragazzino che esce in
strada e sparisce. Lo fa una volta, due, tre… in pratica sta andando a prendere
i piatti che ordiniamo da qualche altra parte, forse in un ristorante vero.
Fantastico! Alla fine chiedo un dessert a sua scelta e il giovanotto
dell’ingresso dice “ci penso io” e se ne va. Dopo un po’ ritorna con 3-4 piatti
che ci dice di provare: un tortino tipico del dashain, un altro dolcetto che
fanno a Kathmandu e una specie di yoghurt da bere con uvetta e altre cose che
galleggiano. Scopriremo presto che quello è il famoso e favoloso lassi (“losci”,
come lo pronunciamo loro), lo yoghurt di Kathmandu di cui ben presto
diventeremo dipendenti. Ce ne andiamo tra mille ringraziamenti dopo aver speso
2100 rps in quattro, meno di 4 euro a testa.
Per arrivare a Durbar Square
prendiamo un paio di stradine buie e strette, le porte delle case sono tutte
chiuse, a terra notiamo tanto riso e tanti petali arancioni. Sono le offerte
per le divinità in occasione della grande festa del dashain. La piazza è grande
e gli edifici imponenti, solo che tutto è buio, l’illuminazione praticamente
non esiste a parte qualche faretto montato direttamente sui principali templi.
Non c’è praticamente nessuno, a parte qualche passante che non resiste alla
tentazione di rivolgerci la parola per sapere da dove veniamo e qualche
tassista che si propone di accompagnarci ovunque domani o quando vorremo noi.
In generale la prima impressione che abbiamo della popolazione e del luogo è
decisamente migliore di quanto ci aspettassimo. Nessuno che ci infastidisce,
nessuno che ci guarda in modo strano e nessuna sensazione di disagio o pericolo.
Anzi ci sembra di avere a che fare con gente tranquilla e serena, gentile e
disponibile; buona gente insomma. Va detto che questa prima impressione sarà
pienamente confermata nei giorni che verranno, senza eccezioni. 

mercoledì 9 ottobre: KATHMANDU Sono le 8:29 quando il nostro
amico dell’agenzia si presenta davanti all’hotel. Puntualissimo e sorridente:
ci piace già; se davvero sarà la nostra guida ne saremo contenti. Ci guardiamo
attorno per cercare la macchina, ma lui è venuto a piedi e a piedi ci conduce
fino alla sede della Hardrock Treks. Facciamo la nostra prima esperienza di
passeggiata diurna per le vie di Kathmandu e ci divertiamo ad evitare tutti gli
ostacoli, più o meno animati, e ad evitare di essere travolti da uno dei cento
mezzi che ci sfrecciano accanto. Dopo un po’ ci riesce facile: basta ignorare
tutti e procedere per la propria strada, ci pensano loro a spostarsi di
conseguenza. Le vie che percorriamo sono piene di agenzie di trekking con
accanto altrettanti negozi di attrezzatura da montagna: non ci fermiamo, ma i
pochi prezzi che riusciamo a vedere ci sembrano incredibilmente bassi. Se le
cose stanno così sarà meglio cominciare a fare spazio nei bagagli per il
ritorno. 

In agenzia c’è Om in persona, il
famoso titolare della Hardrock. Ci accoglie con un sorriso tanto sincero quanto
gentili e pazienti erano le sue mail e comincia a spiegarci come funziona il
trek e l’organizzazione dello stesso. Finalmente ci svela il mistero del nome
del nostro amico (Nabaraj, pronunciando la “j” come la “g” di gioco) e, dopo
averci snocciolato tutte le sue esperienze precedenti, ci conferma che sarà lui
la nostra guida. Ci chiede i documenti ed in particolare i dati
dell’assicurazione, con un puntiglio ed una precisione che sinceramente non ci
aspettavamo. Lo consideriamo un altro segno di serietà.
Vale la pena aprire una parentesi
sull’assicurazione. Tutte le agenzie di trekking richiedono che i propri
clienti siano dotati di una polizza assicurativa che comprenda non solo il
pagamento delle spese mediche generali, ma anche quelle di recupero e trasporto
con mezzi speciali, tipo elicottero. E’ quindi importante controllare bene che
tra le clausole del nostro contratto assicurativo sia chiaramente indicato
anche questo tipo di recupero. Inoltre tutte le polizze assicurative (o almeno
tutte quelle che abbiamo consultato noi) estendono la propria copertura fino
alla quota di 4000 metri. Noi che abbiamo la polizza Columbus annuale, ad
esempio, non saremmo coperti oltre quella quota e non avremmo neanche la possibilità
di estendere la copertura alle quote più elevate. Alla fine però troviamo il modo
di avere la copertura che desideriamo: la sede britannica dell’Austrian Alpine
Club (12a North Street, Wareham, Dorset,
BH20 4AG; tel: 01929.556.870, aac.office@aacuk.org.uk; www.aacuk.org.uk), oltre a tanti benefits più o meno
utili, regala a tutti i propri soci una polizza assicurativa completa AWS (Alpine
Association Worldwide Service) che
comprende il soccorso in montagna in tutto il mondo, con qualsiasi mezzo, fino
alla quota di 6000 metri. Il costo dell’iscrizione annuale all’AAC (UK) è di
43,50 sterline per il capofamiglia e 33,50 sterline per il coniuge. Dalle
nostre ricerche questo è l’unico modo per avere una copertura assicurativa
completa per un trek himalayano come il nostro.
Oltre che sulle questioni
tecniche Om si sofferma anche sulle raccomandazioni che possono sembrare
scontate, ma che evidentemente per molti escursionisti non sono tali. Vuole
anche una fototessera da apporre sulla carta del trekker, una specie di
documento di identità che dovremo mostrare all’ingresso del parco e a tutti i
posti di controllo che incontreremo lungo il cammino. Questo documento va
sempre fatto ed è di colore blu nel caso in cui, come noi, si faccia parte di
un gruppo organizzato con guida e gestito da un’agenzia, mentre è di colore
verde per quelli che intraprendono il trek in maniera del tutto indipendente,
trasportando il proprio materiale ed assumendosi la piena responsabilità di
quanto può accadere durante il trek stesso. Come concordato paghiamo in
contanti l’intera quota per evitare un supplemento legato al pagamento con
carta di credito. Ci consegna una bottiglietta con
le gocce di cloro da aggiungere all’acqua, ci mostra il ricco kit di primo
soccorso che Nabaraj porterà per noi e ci comunica che i sacchi a pelo e le
giacche ci saranno consegnate direttamente in hotel il giorno seguente.
Chiediamo anche a lui notizie meteorologiche e anche lui ci rassicura dicendo
che di maltempo ne hanno già avuto abbastanza in questi primi giorni del mese e
che adesso dovrebbe essere tutto passato. Per il sole al Khala Pattar invece ci
dice che l’unico modo è pregare e che lui lo farà per noi. Speriamo che basti. A questo punto ci libera, ci
augura le migliori fortune e incarica il buon Nabaraj di accompagnarci nel loro
negozio di fiducia per farci fare i migliori acquisti, verificando i prezzi
insieme a noi. Non potevamo desiderare niente di meglio: pure la guida in
negozio. Solo che lui non sa che noi siamo come cavallette fameliche… Detto…
fatto… In un’ora ripuliamo il negozio e cediamo a tutte le tentazioni
possibili. A un certo punto il negoziante deve chiamare soccorsi perché non
riesce a seguire ciascuno di noi quattro che giriamo impazziti nel locale come
pesci rossi in un acquario rotondo. Giacche, maglie, magliette, bastoncini,
k-way, zainetti, borsoni, borracce… alcune cose che porteremo con noi e molte
altre che lasceremo in custodia a Om per il ritorno a casa. Che goduria! A
questo punto è sicuro che dovremo imbarcare qualcosa.
Salutiamo il povero Nabaraj e ci
incamminiamo verso Durbar Square con i saluti del negoziante che ancora grida
alle nostre spalle e che nei giorni seguenti ci ringrazierà ancora da un capo
all’altro della strada ad ogni nostro passaggio. Sono passate poche ore dal
nostro arrivo, ma già ci sentiamo più sicuri nel caos delle strade e procediamo
quasi senza esitazioni. Ogni stradina è stracolma di gente, chiaro segno dei
giorni di festa, ed è addobbata con fili di bandierine di preghiera colorate. Qualunque
tempietto è pieno di offerte di ogni tipo e le raffigurazioni delle divinità
sono ormai completamente colorate di rosso e arancio a causa dello sfregamento
dei tradizionali petali colorati. Perfino le mattonelle decorate che si
incontrano a bordo strada sono colorate e sepolte sotto offerte di riso, tanto
che oltre al traffico dobbiamo fare attenzione a non calpestarne nessuna per
non mancare di rispetto a qualcuno. Abbiamo ancora la stessa
sensazione di sicurezza e tranquillità della sera precedente, nonostante i
passanti siano cento volte di più nessuno ci infastidisce o ci riserva più
attenzioni di quanto desideriamo. Certo, ogni tanto capita una guida o un
tassista che offre i propri servizi, ma mai con insistenza e sempre con
simpatia. Lungo il percorso troviamo anche un venditore di lassi e ce ne
facciamo subito uno “big”, tanto per prendere il ritmo. Poi arriviamo a Durbar Square e
capiamo il senso della parola folla. Uomini, donne, bambini, molti a piedi,
alcuni in bici o in moto, automobili scassate e furgoncini, carretti trainati
da buoi e buoi senza carretti, cani, galline, tassisti, santoni, guide, vecchi
che si appoggiano al bastone e altri che stanno seduti forse a pregare,
venditori di articoli turistici e venditori di cose sacre, turisti in gruppo e
turisti che fanno foto… sono tutti qua. Prima che possiamo notarlo ci si
affianca un ufficiale e ci dice che dobbiamo pagare: ora capiamo il senso di
quelle casette ai quattro angoli della piazza. In pratica qui si paga (750 rps a testa; http://www.kathmandu.gov.np/Page_Kathmandu+Durbar+Square_168)
per accedere al quartiere, alla zona che comprende la piazza e le principali
attrazioni al suo interno e attorno ad essa. Lo stesso sarà alla Durbar Square
di Patan e di Bhaktapur. 



Seguiamo un po’ le indicazioni
della guida, riconosciamo quasi tutti gli edifici principali e saliamo su
alcuni per avere una visuale più ampia del complesso: la piazza è molto grande
ed ha forma irregolare, quasi è formata da più piazze che si affacciano una
sull’altra, ciascuna con un carattere diverso. I grandi templi in legno che ne
occupano il centro e i vecchi palazzi in muratura che la cingono su tutti i
lati creano un ambiente unico e un’atmosfera molto particolare, decisamente
caratteristica. Sui tetti le vecchie tegole sono quasi completamente avvolte da
una vegetazione spontanea, più o meno secca, che cresce da chissà quanto tempo.
Alle finestre senza vetri si affacciano anziane signore che potrebbero avere 60
o 100 anni, oppure bambini curiosi che salutano tutti quelli che passano e
sembrano avere una faccia diversa da quelle che sono abituati a vedere. Dopo
esserci divertiti ad esplorare tutti i vicoli che collegano le varie piazzette
riprendiamo la direzione nord verso Kantipath (pranzo leggero in un ristorantino sulla strada, 370 rps in quattro),
un grande viale trafficato, per raggiungere il Garden of Dreams. E dire che ci
eravamo ripromessi di non camminare troppo per non sprecare energie in vista
del trek. 


Il giardino dei sogni è un’area
verde privata risalente al 1920; posta tra il palazzo reale e il quartiere di
Thamel, è oggi aperta al pubblico (ingresso
200 rps; gardenofdreams.org.np) e visitabile da turisti e nepalesi.
L’insieme di padiglioni e fontane, aiuole e laghetti, tutto in stile
neoclassico, lo rende realmente un’oasi di pace nel traffico caotico della
capitale. E’ incredibile pensare al silenzio e alla quiete che regnano al suo
interno sapendo che a poche decine di metri, giusto oltre il muro di cinta, ci
sono i rumorosissimi viali della città. C’è parecchia gente sui prati e anche
noi ci concediamo un po’ di riposo all’ombra, prima di riprendere il giro delle
visite. 


Ma invece di camminare ancora,
siamo in effetti un po’ lontani, chiediamo a un tassista che guarda caso ci
aspettava fuori dal cancello di portarci al tempio delle scimmie, il famoso
Swayambhunath (ingresso 200 rps;
http://www.kathmandu.gov.np/Page_Swoyambhu+Nath+Stupa_169) che sorge su una
collina a ovest di Thamel. Facciamo bene, perché l’ascesa al tempio non sarebbe
stata per niente semplice e non abbiamo certo bisogno di fare centinaia di
gradini qui a Kathmandu. Il complesso che comprende il
tempio è favoloso. Dagli alberi che ornano il piazzale di ingresso partono
decine di cavi con bandiere di preghiera di ogni colore: alcuni arrivano sulla
cima di altri alberi, altri al tetto di qualche tempietto, altri ancora
superano un boschetto e vanno in direzione dello stupa principale. L’effetto,
col sole della sera che illumina la scena, è strabiliante. Ovunque si vedono
scimmie che vagano liberamente; da sole, con i piccoli, in gruppo, ciascuna
indaffarata in qualche importantissima attività scimmiesca. Il sito non è
dedicato ai piccoli primati, dunque le scimmie non sono venerate, ma
evidentemente hanno eletto questo luogo, in cui nessuno fa loro del male, a
loro residenza. Non costituiscono un pericolo per le persone, se non per
piccoli furti di cibo o altri oggetti; l’importante è non avvicinarle con
troppa insistenza, soprattutto se hanno i piccoli al seguito. Per il resto sono
ottimi soggetti per le foto e rendono l’intero luogo ancora più particolare. In cima alla salita si vede
l’enorme stupa circondato da altri edifici più piccoli. Si può liberamente
passeggiare tra le casette di quello che è a tutti gli effetti un piccolo
villaggio e contemplare la bella vista di Kathmandu da una posizione
privilegiata. Inutile dire che una visita a questo tempio è obbligatoria
durante qualunque soggiorno nella capitale. 










Una volta rientrati in città
passiamo dall’hotel per prenotare il taxi per le escursioni di domani: ora che
abbiamo più familiarità con i prezzi locali ci sembra che la proposta
dell’hotel sia più che onesta. In questo modo dovremmo riuscire a vedere i siti
più importanti in un’unica giornata senza dover contrattare un trasporto di
volta in volta. La gita, che comprende Bodhnath, Pashupatinath e Patan, ci
costerà 1000 rps a testa. Anche per questo genere di attività, oltre che per la
buona qualità del servizio, delle camere e della colazione, dobbiamo dire che
il Kathmandu Prince Hotel ci soddisfa pienamente. Per oggi abbiamo camminato
abbastanza, quindi andiamo a cercare un ristorante che abbiamo notato
stamattina e che ci sembrava vicino all’hotel. Infatti lo troviamo e mangiamo
tanto da scoppiare per 1700 rps in quattro. Purtroppo non possiamo ricordarne
il nome perché all’ingresso non c’è e perché qua chiedere un biglietto da
visita è come pretendere un po’ di ghiaccio da un tuareg.
giovedì 10 ottobre: KATHMANDU Ci tenevamo a visitare almeno i
luoghi più importanti della valle di Kathmandu e questa gita in taxi ci
consente di fare tutto senza troppo dispendio di energie. I tre siti fuori
città si incontrano procedendo in senso orario da nord a sud: prima Bodhnath,
poi Pashupatinath e infine Patan. E allora via per le strade polverose ancora
una volta, col clacson che suona senza pietà e una ruota di preghiera in
miniatura che gira sul cruscotto.
Bodhnath (ingresso 150 rps) è in sostanza un enorme stupa sferico,
probabilmente il più grande del Nepal, cui nel tempo è stato costruito attorno
un vero e proprio quartiere. Solo che questo quartiere è chiuso e forma in
pratica una piazza con una quinta circolare; alla piazza si accede attraverso
varchi posti in alcuni punti del perimetro, tutti affacciati sui viali della
città. L’origine di questo sito è da ricercare nella cultura tibetana, in
quanto si trovava sull’antica via che collegava il Tibet alla valle di
Kathmandu e a Patan, l’antica capitale. I pellegrini e i profughi che dal Tibet
seguivano la via verso sud trovavano ristoro in questo punto e così, nel tempo,
sorse e si sviluppò il sito come lo vediamo ora. Ecco spiegato il perché di
questa chiusura verso l’esterno, di questo arrocco attorno al sacro stupa
gigante. La struttura in effetti è
impressionante, per le dimensioni e per l’intorno creato da queste facciate
colorate che si affacciano sulla piazza. La stessa piazza non è in realtà uno
spazio aperto come siamo abituati a pensare, ma un largo percorso ad anello che
corre attorno al muro perimetrale dello stupa. All’interno del perimetro
centrale si trovano alcune scale che consentono l’accesso alle aree di
preghiera ed alla zona ai piedi dell’immensa cupola. Solo gli addetti alla
manutenzione possono salire sulla cupola stessa. Ovunque troviamo simboli,
altarini, statue e raffigurazioni che non riusciamo a decifrare e a comprendere
fino in fondo, ma sicuramente l’atmosfera che respiriamo qua dentro è molto
diversa dal resto della città, chiusa fuori dalle mura: tutto l’insieme è così
singolare e stupefacente che quasi ci piace più del bellissimo tempio delle
scimmie di ieri.  





Risaliamo in macchina con una
rinnovata voglia di Tibet (ma non c’era mica bisogno di Bodhnath) e ci
lanciamo, letteralmente, alla volta di Pashupatinath (ingresso 1000 rps), uno dei siti più sacri che costituisce
l’equivalente nepalese della Varanasi indiana. Con le dovute proporzioni
naturalmente. Si tratta di un sito dedicato al
dio Pashupati, che se abbiamo capito bene è uno dei nomi o manifestazioni di
Shiva, che comprende numerosissimi templi lungo un tratto del fiume Bagmati, il
corso d’acqua che bagna la capitale ed è sacro sia per gli induisti che per i
buddisti. Sui numerosi ghat disposti sulle sue rive si preparano le pire
funerarie per la cremazione dei defunti, le cui ceneri vengono poi sparse nelle
acque del fiume sacro. Acque che raccolgono i lavacri dei defunti, le ceneri, i
bagni dei locali e degli animali, le vesti e i resti dei corredi funebri, gli
scarichi di Kathmandu e l’altra immondizia comune… e che secondo noi sono sacre
perché una volta che ci si immerge non resta che pregare e affidarsi a qualche
divinità. Scherzi a parte, non vogliamo mancare di rispetto a nessuno, appena
si arriva, prima ancora di vedere il fiume e le persone, si capisce che il
luogo è particolare, diverso. C’è molta gente in giro, ma in
tutto il complesso regna un silenzio rispettoso che, se paragonato al rumore
cui ormai siamo abituati, risulta quasi innaturale. Le persone si spostano
lentamente, non gridano, sostano a pregare e quasi non ci degnano di uno sguardo;
anche noi procediamo senza parlare e servono parecchi minuti prima che ci
decidiamo a scattare una foto. Solo i soliti figuranti che chiedono di essere
fotografati in cambio di denaro ci avvicinano e rompono la sacralità dell’area. 

Nelle vicinanze del tempio
principale, quello dedicato a Pashupatinath, due ponticelli pedonali in
muratura collegano le due sponde del Bagmati. Solo i componenti della famiglia
reale possono utilizzare i ghat che si trovano esattamente di fronte al tempio;
le persone comuni possono cremare i propri defunti su tutti gli altri, per lo
più disposti e visibili sulle riva occidentale. Si può liberamente accedere
alla zona dei ghat e dei templi, ma solo gli hindu possono accedere al tempio
di Pashupatinath. Ci si sente inevitabilmente a disagio a camminare con una
macchina fotografica in mano tra gruppi di persone che si preparano a celebrare
un funerale e ancora di più quando un rito è in corso. Preferiamo rimanere più
a lungo sulla sponda opposta, da cui tra l’altro si gode di una migliore vista
sul complesso nel suo insieme. Assistiamo a diverse fasi del
rito funerario, perché le cerimonie si svolgono contemporaneamente in più
punti. In fondo ad una scalinata che si perde nelle acque del fiume c’è il
cadavere di una donna, deposto su una specie di lettiga, che un paio di parenti
stanno preparando per il rito. Con gesti sempre uguali bagnano il corpo della
donna con le acque sacre e dispongono veli e indumenti, evidentemente con un
significato che ci sfugge, sugli arti, sul ventre e sulla testa. Molti fiori
color arancio sono pronti lì accanto. In cima alla scalinata un gruppo di una
decina di parenti assiste in silenzio alla scena. Poco distante un bambinetto,
avrà 7-8 anni, si immerge completamente per lavarsi. Dal nostro punto di
osservazione possiamo vedere, all’estrema sinistra, un pira completata con
sopra una specie di barella simile a quella su cui giace la donna di prima.
Sopra si notano le forme di un corpo avvolto in teli colorati, mentre un uomo
con in mano una torcia sta tra la pira e i numerosi parenti che occupano la
parte estrema della tettoia. In pochi secondi il fuoco è acceso. Sul ghat
vicino, sarà lontano una decina di metri, le fiamme hanno già consumato buona
parte della pira e vicino al rogo c’è solo un uomo che guarda le fiamme e il
fumo con le braccia lungo i fianchi. Spostando lo sguardo notiamo una scena
singolare e semplice, che però forse ci impressiona più di tutte le altre. Due
giovani, che noi chiamiamo i monatti, rovistano con un bastone tra le ceneri ancora
fumanti, probabilmente in cerca di preziosi o altri trofei. I due non sembrano
parenti del defunto, quanto piuttosto abituali frequentatori del luogo che ora
litigano ferocemente per aggiudicarsi il tesoro che uno dei due ritiene di aver
visto per primo. Restiamo un po’ ad osservare le
forme dell’ultimo saluto ai defunti e come noi una folla di curiosi e parenti
sulle terrazze di fronte al tempio principale, guardando con profondo rispetto
questa umanità diversa che compie rituali a noi quasi incomprensibili. Poi
saliamo la lunga e ripida scalinata che, dopo aver superato i terrazzamenti con
innumerevoli tempietti di Shiva, conduce alla spianata panoramica della sponda
orientale, con vista sul tempio di Pashupatinath e su tutto il sito, fino
all’ansa del Bagmati. 
 



Non c’è molto altro da vedere, se
non tempietti secondari che occupano il versante più lontano della collina. In
tutto la visita ci è costata solo un paio d’ore, ma si è rivelata più
interessante ed emozionante del previsto. Il sito da cui invece ci
aspettiamo molto è Patan, l’antica capitale Lalitpur, che oggi si trova a sud
di Kathmandu. Anche qui l’area più interessante è quella che comprende Durbar
Square e le vie circostanti: l’ingresso (500
rps) si paga presso una delle biglietterie poste in corrispondenza delle
vie d’accesso. Sarà che tutti i templi sono magnifici e ravvicinati, sarà la
perfetta conservazione e la cura del luogo, sarà che col sole tutto sembra più
bello… di sicuro questa piazza è favolosa. Un giovane in cerca di turisti da
guidare ci indica come raggiungere il punto sopraelevato da cui scattare la
classica foto delle cartoline: si tratta di una terrazza sul lato opposto della
strada cui si accede salendo una scaletta di pietra seminascosta dietro alle
bancarelle, proprio accanto al negozio del venditore di lassi. E via un lassi
big a testa, che da quando abbiamo fatto colazione non ne abbiamo ancora preso
nessuno; non vorremo mica avere una crisi di astinenza!? La vista di Durbar Square dalla
terrazza è bellissima e la posizione elevata consente di scattare foto da
un’angolazione privilegiata. Deludiamo il gentile ragazzo guida e ci affidiamo
alle pagine della lonely e al caso per esplorare questa meraviglia in un tempo
umano. In tutta onestà un visita guidata forse ci avrebbe consentito di
comprendere meglio le simbologie ed il significato delle costruzioni, ma anche
il girovagare con lo sguardo per aria e le nozioni fondamentali di una guida
cartacea non toglie niente al tempo che trascorriamo qui a Patan. C’è molta gente,
in apparenza più locali che turisti, ma si passeggia comunque con piacere,
senza alcun fastidio. Giriamo tutta la piazza principale e quelle secondarie,
seguiamo i percorsi a piedi suggeriti dalla lonely, ci perdiamo imboccando
vicoli e stradine a caso, spinti solo dalla curiosità, da un odore particolare
o dalla vista di qualcosa appeso all’ingresso di un negozio. Gira e rigira si fa presto a far
sera e, tempo di un’altra foto dalla terazza, è già ora di ritrovare l’autista
per tornare in hotel. Non vogliamo rientrare troppo tardi perché dobbiamo
preparare i borsoni, controllare i sacchi e le giacche che Om dovrebbe aver
consegnato, decidere cosa lasciare in agenzia per il bagaglio del ritorno e
sistemare tutto per il trasferimento di domani. 










Già… domani. Ora che le visite
sono finite non abbiamo più scuse per occupare la mente, non abbiamo più niente
di cui parlare che non sia il trek. Solo adesso sentiamo che il momento sta
finalmente per arrivare. In hotel non c’è ancora niente da
parte di Om: poco male, abbiamo il tempo di preparare i bagagli da lasciare a
lui in custodia. Facciamo anche in tempo a portarli in agenzia e lì scopriamo
che le nostre cose sono appena partite per raggiungerci in hotel. Ci siamo incrociati
per strada. Om coglie l’occasione per augurarci ancora tutto il bene e la
fortuna possibili. Solo che in hotel scopriremo che le giacche hanno taglie
esageratamente grandi per noi, c’è pure una XL. Chiamiamo in agenzia, ma ormai
è chiuso e non c’è nessuno che possa aiutarci a fare un cambio. Siamo un po’
contrariati perché una giacca troppo grande non riesce ad essere efficace
contro il freddo e il vento, tuttavia non possiamo farci niente e mettiamo i
fagotti nel borsone dei portatori. In qualche modo, pensiamo, ci organizzeremo.
I sacchi a pelo invece vanno bene, sono perfettamente puliti e sembrano
caldissimi. Non abbiamo altro da fare,
l’eccitazione cresce e passeggiamo cercando un buon locale dove cenare.
Troviamo il famoso Yak Restaurant (cena
completa 1355 rps in quattro;
http://www.tripadvisor.it/Restaurant_Review-g293890-d1156637-Reviews-Yak_Cafe-Kathmandu_Kathmandu_Valley_Bagmati_Zone_Central_Region.html),
specializzato in cucina tibetana e molto frequentato sia dai turisti che dai
locali, che ci regala un’ultima cena a Kathmandu ottima ed economica. E’
proprio quello che volevamo. Ora davvero non ci resta che tornare in hotel,
chiudere definitivamente gli zaini e riposare bene. Domani Nabaraj ci verrà a
prendere alle 4:30. Domani è il nostro giorno.
venerdì 11 ottobre: KATHMANDU – LUKLA – PHAKDING E finalmente il giorno arriva. Il
giorno del volo per Lukla, del volo verso le vette himalayane che abbiamo
sognato tutta la vita e che finalmente potremo toccare. E’ il giorno del trek. Svegliarsi prima dell’alba e
saltare la colazione sono piaceri che condividiamo tutti insieme mentre il taxi
arrugginito sfreccia tra le strade quasi deserte del primo mattino. Ci sembra
così strano non sentire i mille clacson e non vedere la massa di veicoli e
persone e animali che invade la carreggiata. Nonostante l’ora il terminal dei
voli domestici, chiamiamolo così, è affollatissimo e pieno di un’umanità quasi
omogenea, di persone quasi tutte uguali. Facce sicure e grintose, scarpe da
trekking, giacche tecniche, guanti, pantaloni antivento, occhiali a specchio…
sono tutti vestiti allo stesso modo: americani, spagnoli, francesi, russi,
tutti accompagnati da qualche nepalese in tenuta da alta montagna, tutti con
gli occhi pieni di quello che devono ancora vedere. Beh… quasi tutti. Ci sono anche
gruppi di piccoli giapponesi e rumorosi italiani che indossano scarpe da
ginnastica, occhiali firmati e maglioncini di cotone. Tutti in fila dietro ad
una bandierina, tutti con la borsetta stretta al corpo e gli occhi vigili,
neanche fossimo in un quartiere malfamato a mezzanotte. Sono quelli che
prendono uno dei tanti voli per “mountain”. All’inizio pensiamo di aver capito
male il nome della località, magari è un modo per dire Lukla; invece no, è il
nome dei voli turistici che fanno un sorvolo della catena himalayana e tornano
indietro. E allora capiamo tutto, le scarpine leggere, i maglioncini, gli
occhiali… che vadano pure a mountain.
Il nostro dovrebbe essere “uno
dei primi voli”. Nabaraj si intrattiene a lungo con un tipo che ha in mano un
pacco di carte d’imbarco, poi indica il banco di una compagnia, poi quello di
un’altra, poi ci dice di sederci perché il nostro volo parte tra un po’. Ci
consegna il boarding pass di Air Kasthamandap; ma che compagnia è?! Non compare
sui monitor, non viene annunciata, non ha neanche il suo banchetto. Boh… saprà
lui come fare. E la carta d’imbarco, a volerla dire tutta, è un pezzo di
cartoncino della compagnia con un numero scritto col pennarello accanto alla
dicitura “Flight No”. Capiamo quanto sia importante avere una guida o comunque
qualcuno che sappia districarsi in questa situazione, in cui tutti devo andare
nello stesso posto, ma nessuno sa di preciso come fare. Passa un’ora, ne passano due, decollano
molti voli Tara Air e Sita Air, partoni i duri e partono quelli per mountain,
ne arrivano altri e pure quelli partono, ma quando tocca a noi? Alla fine
arriva il nostro momento, sono passate le 9 e ci troviamo davanti ad una
bilancia gigante per pesare i nostri borsoni da venti chili. Usciamo sulla
pista e ci dicono di andare a sinistra; ma come… gli aerei sono a destra! Un
po’ più in là c’è un pick-up da cui esce un omino che ci fa un cenno di saluto.
Ma non ci stiamo, che storia è mai questa?! Fa salire le donne e la macchina è
piena, e noi? Nessun problema, ci indica il retro scoperto. Hai capito… le
donne dentro e gli uomini fuori insieme ai bagagli e agli attrezzi. Fantastico!
Che bello il Nepal! Il nostro aereo è più piccolo
degli altri, molto più piccolo. Scopriamo che insieme a noi voleranno solo
altre due persone: il caso vuole che siano una coppia di italiani altoatesini,
lui che è alla quinta esperienza sullo stesso sentiero, ci tiene a dircelo
subito, lei che invece sembra un po’ più perplessa. In pratica, chissà perché,
voleremo con una compagnia privata. Poco male, l’importante è andare. Matteo ha paura di volare, si
sforza di apparire tranquillo, ma l’aspetto semplice e trasandato
dell’aeroplanino è un po’ difficile da digerire. Comunque non c’è tempo per
avere paura, siamo in movimento sulla pista e in un secondo stiamo già
guardando Kathmandu dall’alto. Il cielo è sereno e non c’è
vento, voliamo che è un piacere, tanto che mi addormento finchè una mano mi
scuote la spalla e una voce mi dice “guarda, c’è l’Everest!”. Faccio una foto a
caso dal finestrino, mi sa che non era l’Everest, però è lo stesso: siamo già
arrivati. 
 
La pista è in salita. O in
discesa, dipende dai punti di vista. E’ cortissima e finisce contro il fianco
della montagna. Scendendo si sente la forza di tutte le correnti contro il
nostro piccolo velivolo. Ecco perché l’aeroporto di Lukla è definito il più
pericoloso del mondo, figuriamoci cosa può essere volare qui con condizioni
meteo avverse. In ogni caso atterriamo senza un sussulto, senza paure e senza
problemi. Siamo al Tenzing-Hillary Airport, il polo aereo voluto proprio dai
protagonisti della storica conquista, la porta di accesso alle vette
himalayane. L’aerostazione è un grande
camerone in cui si affolla la stessa gente, con le stesse facce che abbiamo
visto partire da Kathmandu, ora più abbronzate e segnate dalla montagna. Una
rete arrugginita separa l’area aeroportuale dal resto del paesino e al di là di
quella decine di nepalesi che salutano, chiamano, gesticolano… Sono i portatori
in cerca di un ingaggio. Nabaraj, che a Kathmandu sembrava spaesato, è
diventato improvvisamente fortissimo e sicuro, sembra anche più alto; ignora
tutti e ci porta al Namaste Lodge per organizzarci e fare colazione. Il posto è bello, sembra uno dei
nostri rifugi, e la colazione è ricca e buonissima. Mentre mangiamo Nabaraj
parla fitto fitto con quello che sembra il capo del lodge, ma anche il boss del
paese, con la faccia tranquilla dei forti e la calma dei predatori. Non lo
sappiamo ancora, ma prima della fine lo rivedremo e sarà di nuovo protagonista
della nostra storia. Usciamo. Le stradine sono piene
di gente, uomini con enormi carichi sulla schiena, donne, bambini, buoi,
mucche, galline… Si vede che la giornata è buona e l’aeroporto sforna
escursionisti a tutto spiano. Ci sono anche i nostri portatori: due giovanotti
che dimostrano sì e no vent’anni. Insieme a Nabaraj sistemano i nostri borsoni,
li legano, ci fissano sopra i propri zainetti e si caricano il tutto sulle
spalle. Anzi, più che sulle spalle tengono il carico sulla schiena, sostenuto
da una fune che a sua volta gira sulla fronte, nell’assetto tipico del
portatore che ci sarà tanto familiare nei giorni che verranno. E così si parte,
inizia il trek. 

Alla fine del paese c’è un arco
in muratura, intonacato e dipinto di bianco con pochi decori tradizionali, una
specie di portale verso le montagne. Tutti devono attraversarlo, quelli che
arrivano e quelli che partono. Per noi e per gli altri escursionisti appena
arrivati rappresenta l’inizio di tutto, la porta dei sogni, l’accesso al mondo
di cui tanto abbiamo fantasticato. E’ inizio e fine, gioia e dolore, è un
insieme di emozioni da leggere in un secondo sulla faccia di chi proviene dalla
parte opposta. Basta un passo per oltrepassarlo,
ne bastano due essere già lontani da Lukla e ritrovarsi sul sentiero, sulla
ripida discesa verso il fondovalle. Siamo felicissimi. Pieni di
energie e di entusiasmo non sentiamo la strada che scorre sotto i nostri
scarponi, il cielo è limpido e il sole ci riscalda, anche troppo, tanto che
presto ci troviamo a procedere in maglietta e pantaloncini. Nabaraj ci spiega il significato
delle forme rituali che incontriamo una dopo l’altra: ruote di preghiera,
bandiere colorate issate su alti pali di legno, enormi massi decorati o
scolpiti con la riproduzione del celebre mantra… om mani padme hum… om mani
padme hum… om mani padme hum… Non c’è da
scherzare, grande sventura attende chi passa dalla parte sbagliata. Ci spiega
che è importante passare tenendoli alla nostra destra e che la ruota va girata
con la mano destra in senso orario. Notiamo infatti che tutti rispettano il
rituale e addirittura c’è sempre un doppio sentiero che aggira gli ostacoli,
proprio per permettere di passare dalla parte giusta. Neanche a dirlo ne
facciamo subito una regola di vita; abbiamo bisogno di tutta la buona sorte e
di tutto il favore divino possibile. Passa un’ora, ne passano due,
procediamo sicuri senza difficoltà: il percorso è semplice e in leggera
discesa. Qualche ponte sospeso per dondolarsi un po’ sugli strapiompi che via
via superiamo, qualche villaggetto e tanto verde. La valle è molto bella e
sufficientemente ampia da permettere la coltivazione, il sentiero è molto largo
e consente il passaggio di persone e carovane di animali da soma: buoi, asini, yak,
tutti portano pesanti fardelli. Il tempo passa veloce e in meno di tre ore
siamo a Phakding, dove i nostri portatori ci aspettano con i borsoni. Dormiremo
in una semplice guesthouse, pulita e confortevole, con l’inaspettato lusso di
un bagno in camera. Tutto troppo facile. Domani sarà
certamente un’altra storia. 






sabato 12 ottobre: PHAKDING – NAMCHE BAZAR La notte è più calda del
previsto, la stanza è fredda ma non troppo e i sacchi a pelo ci fanno sudare
più di quanto desideriamo. Dovremo prenderci le misure. Anche rifare il borsone
ci costa più tempo del dovuto, ma anche a questo porremo rimedio nei prossimi
giorni. In fondo è la prima volta. Comunque alle 8 siamo in cammino verso
Namche Bazar, il cielo è sereno e il sole splende, è caldo e anche oggi
camminiamo con braccia e gambe scoperte. Il percorso non è difficile,
abbiamo tempo per fare foto e per cercare di risolvere il mistero delle cose
comprese e non comprese nel pacchetto trekking che abbiamo acquistato. L’unica
certezza che ricaviamo è che il tea-break di metà mattina è compreso, mentre
l’acqua bollente con cui riempiamo le borracce alla partenza sembra non
esserlo. Pare incluso anche un refill del riso e delle pietanze nepalesi
durante il pasto, ma non quello di altre portate. Dovremo fare altri test
durante il cammino perché abbiamo l’impressione che lo stesso Nabaraj non sia
poi tanto sicuro. Poco male, non sono certo questi i problemi. Un problema invece, si fa per
dire, è quello della carta: carta igienica e fazzoletti sembrano essere beni di
lusso e non solo costano tantissimo, ma sono difficili da reperire. Nei lodge e
nei ristoranti non c’è quasi mai carta nei bagni e nemmeno tovaglioli sui
tavoli; su richiesta arrivano, ma sembra sempre di chiedere cose marziane. Non
parliamo del wi-fi, costoso e prezioso come l’acqua nel deserto. Altra cosa cui
ci abitueremo strada facendo. A proposito di strada… poco dopo
Monjo c’è l’ingresso al Sagarmatha National Park, l’area protetta che comprende
il territorio nepalese da qui al confine con il Tibet. Per seguire la vallata
dobbiamo fare continui saliscendi, perdendo e riguadagnando continuamente la
quota come dannati di un girone dantesco. Intorno a noi formidabili pareti
rocciose si alzano e precipitano verso il fiume allo stesso tempo, regalandoci
prospettive con una profondità che non abbiamo mai visto. Sembra tutto
altissimo; la valle, che in realtà è larga diverse centinaia di metri, sembra
uno stretto e angusto canyon, tagliato di tanto in tanto da improbabili ponti
sospesi. Verso est si cominciano a vedere cime di tutto rispetto: il Thamserku
e il Kangtega sfiorano i 7000 e ci sembrano bellissimi. 








Quando ormai stiamo per
concludere il tratto in falsopiano per attaccare l’erta finale verso Namche Nabaraj
ci fa fermare su uno sperone roccioso tra gli alberi e ci invita a guardare qualcosa
lontano, attraverso i rami. E’ un triangolo con la punta arrotondata, un
abbagliante bianco sopra altri bianchi tra il verde della boscaglia, un alto
così alto che le nuvole stazionano a metà strada tra la terra e la sua cima: è
l’Everest. Per la prima volta vediamo la cima più alta del mondo, la vetta che
abbiamo sempre sognato e che ci ha portato fin quaggiù, la montagna per cui
generazioni di alpinisti hanno sacrificato tempo, energie, denaro e perfino la
vita. E noi siamo qui, in piedi con le nostre macchine fotografiche a scattare
foto tutte uguali a quel triangolo bianco laggiù, con il cuore pieno e la testa
che scoppia per l’emozione. Non una gran vista in realtà, neanche una bella
foto, ma un’immagine che nessuno di noi potrà mai dimenticare. E’ fin troppo
facile in questi casi cadere nel melodramma, ma il momento è uno di quelli che
non capitano tante volte nella vita. Poco più avanti c’è un altro view-point,
più facile e più ampio, dove ci fermiamo per scattare altre foto insieme ad
altri, troppi, escursionisti, ma non è più la stessa cosa. 
Ai piedi della salita finale c’è
un ultimo check-point (se ne incontrano tanti lungo il cammino) in cui oltre
alla nostra identità dobbiamo anche dichiarare la marca delle nostre
attrezzature foto-video. La cosa ci fa sorridere e ci lascia parecchio
perplessi, soprattutto perché Nabaraj ci spiega che questa procedura è volta a
prevenire i furti di materiale tecnologico. Ai posteri l’ardua sentenza
sull’efficacia di questo controllo. La salita è abbastanza faticosa,
forse perché arriva dopo quasi sei ore di cammino sotto il sole, ma la vista di
Namche Bazar dal basso è unica. Un favoloso anfiteatro naturale con pareti
tanto alte da sembrare verticali e centinaia di costruzioni arroccate quasi una
sull’altra in un equilibrio che sembra impossibile da mantenere. Il paese è grande, il più grande
e attrezzato che si incontra lungo il cammino, ed è completamente votato
all’accoglienza turistica: negozi, lodge, ristoranti, tutto ruota attorno agli
escursionisti ed alle loro esigenze. Il nostro hotel è un Comfort Inn pulito e
spazioso, con camere essenziali e servizi al coperto, più simile ad una
struttura occidentale che ad un vero e proprio rifugio nepalese. La doccia calda,
nonostante sia a pagamento (400 Rps),
è un lusso che decidiamo di concederci e che ci ristora. Prima che faccia buio abbiamo il
tempo di fare un giretto tra le vie del paese, per farci tentare da qualche
altro articolo montanaro a basso costo e per vedere arrivare qualche nuvola che
piano piano avvolge l’anfiteatro. E’ normale che si annuvoli un po’ la sera, ci
dicono; in fondo - pensiamo - siamo in montagna. 


In realtà a cena scopriamo con
disappunto di non essere affatto in montagna. Ma come!? Sì, perché dall’inizio
del cammino Nabaraj continua a dirci che in montagna si fa questo, che in
montagna si fa quello, che quando saremo in montagna… E allora gli chiediamo:
ma qui a 3400 siamo in montagna o no?! Lui sdegnosamente ci dice "certo
che no!". E anzi ci spiega, ripensandoci bene, che in effetti in montagna
non ci saremo mai, perché il Khala Pattar, che coi suoi 5545 metri per noi è
come la cima dell’Everest, per loro è una collina: testualmente
"hill". E noi che abbiamo detto a tutti che saremmo andati in alta
montagna. Ma vallo a sapere che invece si andava a fare una gita in collina! Così, tra una battuta e l’altra
ci infiliamo nei sacchi a pelo col tic tac della pioggia sulle lamiere, là
fuori nel buio. Ma tanto si sa, in montagna la sera due gocce le può sempre
fare.
domenica 13 ottobre: NAMCHE BAZAR La mattina scopriamo che nella
notte le gocce sono diventate quattro e forse anche cinque, tanto che quando
guardiamo fuori dalla finestra vediamo solo acqua che forma laghi per terra e
altra acqua che li alimenta cadendo dall’alto. Ma sì, cosa vuoi che sia, una
notte di pioggia ci può stare! E poi abbiamo tutta l’attrezzatura da bagnato
con noi, vorremo pur darle la soddisfazione di essere servita a qualcosa! Così, dopo colazione, coi sacconi
già sulle spalle dei portatori, ci prepariamo alla giornata di acclimatamento
nei dintorni di Namche. La sgambata prevede una sosta al punto panoramico sopra
il paese con tappa al vicino museo e la visita dei villaggi sherpa della zona,
fino ai 3800 metri di Khumjung e nuova favolosa vista delle vette da qui
all’Everest. Da morire dal ridere la
preparazione sotto la tettoia dell’hotel. Noi ci acconciamo per dieci minuti,
ghette, pantaloni anti pioggia, giacche, giacchine, pile, guanti, berrette,
allaccia qui, stringi là... Il nostro povero Nabaraj tira fuori un foglio di
plastica da uno scatolone, se lo mette in testa e va nella pioggia così, con la
sua camicina a quadretti e i suoi pantaloni della tuta bucati. Ci dice che non
c’è problema, che può capitare un po’ di pioggia anche nella stagione secca, ma
poi più tardi torna il sole e le nuvole se ne vanno. Del resto, l’ha detto lui,
siamo nella stagione secca. Arranchiamo fuori dal paese
scivolando sull’erta che ci porta al punto panoramico e al museo. Solo che
purtroppo di panoramico non c’è niente, le montagne sono qui attorno e noi non
le vediamo. Poco male, ci rassicura il fido Nabaraj, ripasseremo nel pomeriggio
per fare le foto; nel frattempo possiamo visitare il piccolo museo del mondo
himalayano. Entrare qui è come entrare nella
storia dell’alpinismo, con i racconti delle imprese, quelli felici e quelli
tristi, e tutte quelle facce… aah quelle facce! Tutti campioni, tutti
vincitori, alcuni celeberrimi e altri meno, sherpa, europei, americani, tutti
lì vicini e tutti sorridenti in cima a qualcosa, una montagna, una salita, un
cumulo di neve; tutti pronti ad affrontare qualcosa che darà loro la gloria
eterna nel ricordo di tutti noi. Foto e storie che abbiamo visto e sentito
mille volte, ma che qui, a casa loro, fanno tutto un altro effetto. Ci sono i poveri
Mallory e Irvine, ci sono Hillary e Tenzing, ci sono i cinesi, c’è Messner,
tutti quelli che negli anni hanno percorso la stessa strada, lo stesso sentiero
su cui ora stiamo camminando noi. Il solo pensiero ci mette i brividi.
Altri brividi ce li regala invece
la pioggia, che nel frattempo non ha rallentato neanche un po’ e che decide di
accompagnarci anche mentre saliamo verso la vecchia pista per i mezzi di
soccorso. Se quella di Lukla ci aveva fatto impressione, questa ci fa proprio
paura: una distesa di sassi e terra, con ciuffi d’erba qua e là e l’aria di
essere tutto tranne che piana e sicura. Ci dicono che ora viene usata solo per
l’atterraggio degli elicotteri di emergenza, alla stregua di altri piccoli
punti di atterraggio più su, verso la fine del sentiero. Salire è abbastanza faticoso
perché il terreno scivoloso e i torrentelli di fango che cominciano a scendere
non aiutano a mantenere un buon passo. Guardando in giù si vede Namche laggiù
in fondo, così vicina eppure così tanto più in basso. Tutto attorno
all’anfiteatro, dalle profondissime gole che lo circondano, si innalzano pareti
rocciose che si perdono nelle nuvole e ci lasciano solo immaginare cosa
dev’essere questo posto. Arriviamo a Khumjung in tempo per
fare una sosta pranzo che ci serve, più che per mangiare, per metterci al
riparo in un luogo caldo e asciutto. Siamo contenti. Sì, contenti; perché non
siamo troppo affaticati, perché l’attrezzatura da bagnato si sta comportando
egregiamente, perché se proprio dovevamo trovare la pioggia meglio oggi che è
un giorno così, perché comunque tutti hanno detto che il brutto tempo è finito
e perché Nabaraj ha detto che nel pomeriggio si apre. E soprattutto perché
siamo qua in mezzo a queste montagne, tanto alte che non se ne vede la cima, a
fare il nostro primo trek himalayano. 

Purtroppo anche Nabaraj, nel suo
piccolo, si sbaglia. Usciamo dal ristorantino e piove ancora come se dovesse
continuare per sempre. Solo per onorare il programma della giornata
riguadagnamo la quota dell’Everest View Hotel (sì, perché Khumjung è più in
basso) da cui ovviamente non godiamo di alcuna favolosa vista. Prima di
affrontare l’impervia discesa verso Namche insistiamo perché Nabaraj accetti uno
dei nostri poncho; non possiamo vederlo con quello straccetto di plastica sotto
il diluvio. Ci vuole parecchio prima che lo prenda, ma alla fine cede e tutto
contento se lo infila e letteralmente ci sparisce sotto. E anche noi ci
sentiamo un po’ meglio. Ma vuoi che uno non si debba portare qualcosa per
ripararsi in una giornata del genere!? Solo dopo una settimana, proprio
qui allo stesso view point, scopriremo la verità. Sarà lo stesso Nabaraj a
confessarci che “quel giorno” – cioè oggi – non prese niente per ripararsi
perché era sicuro si trattasse del solito scroscio che in un paio d’ore passa e
va, lasciando spazio al sole per intere settimane. La realtà, nostro malgrado,
sarà ben diversa e lo scroscio in effetti passerà, ma solo dopo tre giorni. Dunque scendiamo, scivolando su
un composto di fango a cacca di yak, ripassando dalla pista che adesso è un
lago di fango; torrenti d’acqua scendono insieme a noi sul sentiero e Namche
Bazar è solo un indistinto gruppo di tetti colorati tra il grigio delle nuvole.
Le cime tutto intorno si possono solo immaginare. Comincia a venirci qualche dubbio
e nei nostri discorsi il tema meteo diventa una costante: intervistiamo tutti,
dagli escursionisti che scendono ai gestori del lodge, e tutti ci dicono che è
tutto passato, che non c’è problema, che adesso si sistema tutto. Nel frattempo
dal forum ci arrivano notizie molto meno incoraggianti, perché pare che a
Lobuche stia nevicando. Poveri quelli che sono lassù, ma noi dobbiamo arrivarci
fra più di tre giorni, ora che siamo là si è sciolta tutta. In realtà non tutti
sono concordi e il buon Nabaraj non si sente di fare previsioni perché alcune
delle sue fonti parlano di un giorno, altre di tre, altre ancora di cinque. Non
ci vogliamo neanche pensare. Ci dice di pregare molto. Staremo a vedere. 

Prima di rientrare in camera
scopriamo che l’acqua calda della doccia, quella del bagno al primo piano,
funziona anche senza chiedere il permesso. Neanche avessimo trovato la fonte
dell’eterna giovinezza ci infiliamo dentro e furtivi come ninja ci laviamo
gratis nel giorno in cui avevamo previsto di non poterlo fare. E poi, come se
la sorte avesse improvvisamente deciso di sorriderci, nel bagno accanto Sabrina
trova un preziosissimo rotolo di carta igienica, praticamente intero,
dimenticato da qualche scellerato ospite del lodge. Non ci pensa un secondo: lo
fa suo e ce lo mostra come un favoloso trofeo di caccia. Farà un po’ sorridere tutto
questo, la speculazione della doccia gratis, la carta igienica, le bevande
comprese o non comprese, i tovaglioli, ma analizzando a freddo la situazione ci
rendiamo conto che in quei momenti si crea un insieme di condizioni che rende
“normale” questo tipo di comportamento. Sarà che fino a pochi giorni prima la
cifra per una doccia e un rotolo di carta bastava per cenare tranquillamente in
due, sarà che ci sembra un furto far pagare un litro di acqua del torrente
bollita sul fuoco, sarà che le condizioni sono quelle che sono… insomma in quei
momenti infilarsi di nascosto sotto una doccia sembra la cosa più giusta, più
furba e più normale del mondo. E pensare che la mattina dopo
scopriremo pure una presa elettrica funzionante in camera, proprio dietro al
letto. Averla vista prima! Sì, perché anche attaccare un caricabatterie alle
prese è a pagamento.
Dopo sei ore di pioggia sulla
testa non abbiamo voglia di uscire di nuovo in paese, così andiamo a dormire
presto più stanchi di quanto avremmo voluto essere. Questo doveva essere un
semplice giorno di acclimatamento, ma le condizioni meteo ci hanno fatto
faticare più del dovuto. Dobbiamo riposare bene perché domani sarà un giorno
duro: si va a Tengboche. Il rumore della pioggia ci fa
addormentare e accompagna gli ultimi pensieri e le ultime speranze: domani sarà
bel tempo, rivedremo l’Everest da Tengboche e arriveremo quasi a 4000.
lunedì 14 ottobre: NAMCHE BAZAR – TENGBOCHE Non serve guardare fuori. Il
rumore che arriva dal cortile è lo stesso di ieri sera, anzi più forte e
deciso. Diluvia. Non è il caso di abbattersi troppo, sarà la coda della
perturbazione di ieri, andando verso Tengboche incontreremo il bel tempo, non può
essere diversamente. La faccia di Nabaraj in sala colazione è un po’ tirata,
non ci dice niente di spiritoso come al solito, ma solo informazioni tecniche
sul percorso. Mmmh… forse anche lui è seccato all’idea di dover camminare
ancora sotto la pioggia. Non ci pensiamo, facciamo il
nostro breakfast, paghiamo la nostra deliziosa acqua bollente con le gocce di
cloro e ci travestiamo ancora come sub prima dell’immersione. E poi via, nel
diluvio. Piove veramente forte, dobbiamo
indossare anche il poncho sulle giacche impermeabili per proteggerci un po’ di
più. Non tengo neanche la macchina fotografica a portata di mano, tanto sarebbe
impossibile usarla senza farla annegare. Lasciamo Namche ridendo,
letteralmente in un fiume di acquafangocacca, con una leggera prevalenza di
acqua. La salita per uscire da Namche è veramente brutta in queste condizioni e
arrivare asciutti al solito viewpoint del museo è già un bel traguardo. Ora ci
aspetta un comodo tratto in piano e poi la lunga discesa fino al fiume, prima
di affrontare la lunghissima salita verso Tengboche. E’ una costante di questo
trek: essendo i paesini arroccati in cima alle alture ed il sentiero quasi a
fondovalle, vicino al fiume, ogni giorno si perde gran parte della quota che si
è guadagnata il giorno prima per poi risalire fino al paese successivo. In
pratica oggi scenderemo di circa 400 metri per poi dover risalire di 800. Per fortuna non c’è vento forte e
quel poco che c’è non ci spinge la pioggia in faccia. Magra consolazione, un
po’ come uno che sta annegando e si rallegra perchè almeno l’acqua non è
fredda. Incontriamo gruppi di
escursionisti che scendendo ci augurano una sorte migliore della loro. Troviamo
anche gruppi di alpinisti che sono dovuti letteralmente fuggire dalle quote più
alte a causa della neve e delle proibitive condizioni meteo. Alcuni dicono di
aver avuto paura di rimanere bloccati lassù. Non tutti concordano
sull’evoluzione del tempo, alcuni dicono che adesso arriva il bello, ma i più
sembrano piuttosto pessimisti e parlano apertamente di stagione rovinata. Ogni volta ci tocchiamo tutto
quello che possiamo toccare e continuiamo concentratissimi a tenere tutte le
cose sacre alla nostra destra: bandiere, sassi, ruote, cani, carretti… tutto
quello che incontriamo, non si sa mai, metti che ha qualcosa di santo nascosto. Mentre continuiamo in falsopiano
metto Sabrina davanti a tutti, a fare l’andatura. Non che avesse bisogno di un
gesto simbolico, ma la tenacia e l’orgoglio che mette in questo trek vanno in
qualche modo glorificati. Non l’avessi mai fatto. Forse per l’eccitazione,
forse per non voler sembrare quella che va piano… parte a razzo con un ritmo
insostenibile e in cinque minuti si ritrova da sola oltre Nabaraj che ride come
un matto, con quella sua espressione timida e furba al tempo stesso. Meglio
farla stare dietro – dice - se no stasera arriva al Khala Pattar. Magari! Nonostante la pioggia riusciamo a
vedere la vallata, che anche così ci sembra favolosa. I piccoli paesini che
attraversiamo sono avamposti popolati da piccole persone che cucinano, lavorano
il legno, sono indaffarate in mille occupazioni. I portatori continuano a
portare, alcuni li vediamo barcollare sotto immensi carichi, spesso interi
pannelli di legno larghi più di due metri che nel vento diventano pericolosissime
vele. Almeno li riparano dalla pioggia. Non si può immaginare un mondo così
senza vederlo: una realtà parallela, una dimensione a parte fatta di gente che
va a piedi, di yak e scarpe rotte, di indumenti logori lasciati da chissà quale
campione chissà quanti anni prima. Quasi un non-luogo in uno dei luoghi più
belli, affascinanti e alti del mondo.
E’ quasi mezzogiorno quando
arriviamo al piccolo guado del torrentello a fondovalle. Solo che con tutta
questa pioggia il torrentello è quasi un fiume e il guado non è più così
piccolo. Niente di impossibile, ci sono grossi sassi su cui camminare, però
l’acqua è alta, ci passa sopra, abbiamo un po’ paura di scivolare e alla fine
ci tocca mettere i piedi a mollo prima di balzare dall’altra parte. Da qui comincia la salita.
Abbiamo mosso solo pochi passi e subito perdiamo il sentiero. Cioè, non è che
lo perdiamo, solo che una recente frana l’ha cancellato completamente. Seguiamo
Nabaraj tra i massi, sempre guardando in alto che non si sa mai e in pochi
minuti siamo di nuovo sulla pista. Ora la pioggia sembra perdere un po’ di
forza. Lo sapevo che non poteva continuare così, adesso vedrete… smette di
sicuro. Intanto comunque continuiamo a salire. E’ dura, molto dura. Superiamo
un tornante dopo l’altro, ci sembra di non progredire molto, ma guardando
indietro vediamo il fiume sempre più lontano, sempre più in basso. Gli alberi,
ancora fitti sui pendii, e le nuvole non ci fanno vedere la cresta, ma sappiamo
che prima o poi dovremo arrivare in cima. Tanti trekkers, tantissimi,
troppi per i nostri gusti, scendono con le facce scure e ci benedicono: “good
luck! … we couldn’t get the base camp…”. Noi salutiamo tutti e facciamo finta
di sentire solo quello che ci va di sentire, mentre la salita continua e i
portatori in ciabatte ci superano tagliando per il bosco, su tracciati che
neanche una capra di montagna. Non ci supera nessuno, eppure non siamo
velocissimi. Forse davvero sono pochi quelli che salgono. Elena e Matteo sono
quasi sempre davanti, hanno un ottimo passo, sono bravi. Sarà che hanno dieci
anni in meno. No, questa è la scusa che mi racconto da solo, la verità è che
sono forti. Abbiamo fatto bene a portarli con noi. Alla fine, dopo quasi tre ore di
ascesa, arriviamo a Tengboche. Nabaraj indica in alto sui pendii e ci mostra la
neve fresca caduta da poco: quella non c’è di solito, dice, e neanche quella e
quella… in pratica col dito fa mezzo giro della valle. La spianata davanti al
grande gompa tibetano è allagata, ma ormai non ci facciamo caso e ci
soffermiamo invece sull’imponenza della costruzione. Col cielo limpido e le
cime innevate sullo sfondo dev’essere uno spettacolo. Più tardi probabilmente
riusciremo ad assistere ad una cerimonia all’interno: bisogna attendere il
suono del dungchen (la caratteristica lunga tromba tibetana). Siamo decisamente provati e per
fortuna i portatori hanno già messo i borsoni nelle nostre stanze, così che
possiamo trovare un po’ di conforto al riparo da una pioggia che invece di
smettere cade sempre più forte. Le stanze sono come al solito semplici,
essenziali, ma ci sembrano suite di lusso quando ci distendiamo sui sacchi a
pelo, buttati al volo sui tavolacci che fanno da letto. E’ un po’ freschino. La piccola sala comune invece è
fin troppo calda, strapiena di ospiti bagnati e infreddoliti che lottano per un
posto in prima fila, per se e per i propri indumenti, davanti all’unica grande
stufa a legna. Ci sarà da divertirsi stasera all’ora di cena. Non ci fermiamo a lungo perché è
già ora di andare alla cerimonia dei monaci: il ruggito grave del dungchen
riempie l’aria e ci fa ricordare che il Tibet è vicinissimo, proprio oltre
quelle montagne a nord. All’interno del monastero, oltre il cortile di
ingresso, c’è una grande sala dove trovano posto circa venti monaci e un numero
più che doppio di turisti e curiosi. Il rito è decisamente semplice e monotono,
non nel senso di noioso, quanto proprio ripetitivo. A turno, con un ordine ed
una gerarchia che comprendiamo solo in parte, i religiosi attaccano canti e
preghiere accompagnati dal caratteristico suono di tamburi e campanelle. Ci
sono anche alcuni, probabilmente i più giovani, che portano tazze di bevande
fumanti e vari cibi ai più anziani seduti a gambe incrociate sugli scranni.
Contrariamente alle previsioni il rito sembra decisamente lungo e dopo mezzora
molti turisti hanno già saziato la loro curiosità e lasciano l’assemblea. Dopo
un’altra mezzora di litanie e tamburelli i più decidono di uscire e rimaniamo
noi quattro con pochi altri, forse dieci o dodici in tutto. E qui la sorpresa:
proprio mentre sentiamo che la stanchezza per il lungo cammino ci sta quasi
facendo addormentare, uno dei monaci addetto alla consegna dei cibi e delle
bevande allarga il giro e viene da noi. Con il più semplice e gentile dei
sorrisi si inchina e ci porge il vassoio con pane tibetano, caramelle, pezzi di
cioccolato grezzo e pop corn. Sì, pop corn. Accettiamo con grande piacere
l’offerta del monaco e ringraziamo in modo un po’ goffo e certamente non
appropriato, ma sicuramente sincero. Ripasserà ancora per un secondo giro di
assaggi e poi ancora con un cartello che ci invita a lasciare la sala prima che
lo facciano i monaci. 




Nel frattempo s’è fatto buio e
servono le lampade frontali per non mettere i piedi nelle pozze più profonde.
E’ un mondo di fango su cui continua a cadere tanta acqua che sembra non dover
smettere mai. Nabaraj sfodera il suo ombrellino di tela, di quelli che se tira
vento ti si girano al contrario e che anche se te li metti sulla testa ti bagni
lo stesso. A noi basta il cappuccio della giacca per raggiungere la sala della
stufa. Sì, la stufa: ci sono due piani di panche che la circondano dai quattro
lati, una sopra l’altra, con decine di indumenti appesi, sovrapposti, buttati a
casaccio, tutti a gocciolare su un mare di scarponi che ricopre completamente
il pavimento. E dietro a questo improvvisato recinto un’umanità varia,
chiassosa, indaffarata, ma non allegra come ci si aspetterebbe in un luogo
favoloso come questo. Da un rapido giro di consultazioni pare che siamo gli
unici a salire, gli unici che in questa giornata infernale sono venuti su da
Namche, gli altri scendono. Hanno trovato neve, tanta neve. Qualcuno parla di
vere spedizioni alpinistiche che hanno dovuto rinunciare, altri dicono che al
campo base dell’Everest c’era il rischio di rimanere prigionieri della neve,
tutti confessano di non essere riusciti a raggiungerlo. Ormai non c’è più nessuno che fa
previsioni, sembrano quasi tutti rassegnati ad un fato avverso, ad un’annata
tanto speciale quanto infame. Le guide dicono di non ricordare un mese di
ottobre come questo negli ultimi dieci anni, anzi venti anni, anzi non lo
ricordano proprio per niente in tutta la vita. Esagerati! Per due giorni di
pioggia! Noi sfoderiamo una serenità che
non abbiamo mentre il gestore del rifugio ci augura le migliori fortune e ci
sforziamo di non farci ossessionare dal pensiero del meteo. Non vogliamo
rovinarci quella che comunque è una meravigliosa esperienza, non vogliamo
sprecare energie per pensare a cose che non possiamo dominare e soprattutto non
vogliamo perdere di vista le nostre scarpe che nuotano nella marea di quelle
degli altri sotto la stufa. Mangiamo con meno appetito del solito, forse a
causa dell’altitudine, evitando ogni tipo di carne perché Nabaraj ci ha
spiegato che la carne di oggi è sicuramente poco fresca, visto che nessuno per
giorni è potuto salire a portare provviste. Ci consiglia invece di consumare
riso, zuppe di verdure e patate da qui alla fine, finchè non torneremo a
Namche, proprio per evitare il rischio di star male a causa del cibo. E allora
vai col risino di verdure e le patate bollite, un po’ di sano hot lemon e
magari una garlic soup per contrastare gli effetti dell’alta quota. Tutto
rigorosamente bollente, è ovvio.
Restiamo in sala finchè le scarpe
e le nostre cose non sono asciutte e poi ce ne andiamo in camera a riposare
perché veramente la giornata di oggi è stata dura e quasi tutti soffriamo di
qualche lieve sintomo da raffreddamento. Per forza! Con la pioggia è tutto più
scomodo di quanto potrebbe essere; il bagno che ci dicono di usare è un buco
per terra sotto quattro lamiere distante un trentina di fangosissimi metri
dalle camere. Non c’è niente da fare, è buio e piove e ci si bagna e ci si
sporca, tanto che verrebbe voglia di non andarci, ma come si fa… Io sento anche
qualcosa di strano, di quelle cose che è meglio sbrigarsi prima che sia troppo
tardi: per fortuna ce la faccio. Tempo di chiudere la porta della camera ed
ecco ancora la stessa sensazione di urgenza e allora via, rivestirsi,
ricoprirsi, ribagnarsi, risporcarsi nel fango e in tutto quello che c’è là
sotto quelle lamiere. Sono provato e bagnato quando finalmente mi infilo nel
sacco a pelo e cerco di dormire. Non so ancora che quella che arriva sarà la
notte più tormentata dei miei ultimi quarant’anni. Mi sveglierò ancora una
volta e poi un’altra e poi un’altra ancora, cinque volte provando a rivestirmi
in tempo per raggiungere quella cosa laggiù in fondo. Scoprirò presto che il
tempo non c’è, che l’urgenza è troppo urgente, che i sacchetti di plastica sono
straordinariamente versatili e che un cestino portarifiuti sa rivelarsi un
favoloso alleato nel momento del… bisogno. E quando ormai non ho più niente da
dare e penso che i miei giorni finiranno così, in modo tanto inglorioso, sento
con sollievo che le compresse che ho trangugiato come fossero caramelle
cominciano a fare effetto e per fortuna riesco a prendere sonno, pregando che
agli altri non sia toccata la mia stessa sorte.
martedì 15 ottobre: TENGBOCHE – DINGBOCHE Piove ancora. Forse un po’ meno
forte rispetto a ieri, ma il mio primo pensiero conscio non va certo al
confronto tra le quantità d’acqua, quanto piuttosto a come sto. Aaah… aveva
proprio ragione la mia nonna… quando c’è la salute c’è tutto! Sto bene. Mi sembra incredibile
non sentirmi troppo stanco e provato dopo una notte come quella appena
trascorsa. Anzi, adesso sono così avvelenato che l’unico desiderio che ho è
quello di camminare per arrivare dove voglio arrivare, per andare dove devo
andare. Adesso – mi dico - non mi ferma più nessuno; a meno che non ci siano
due metri di neve. Mi sento quasi in una dimensione parallela, non mi interessa
più il tempo, non m’importa se piove molto, poco o non piove affatto: adesso
voglio solo andare avanti, più determinato che mai. Sabrina sta bene per fortuna, non
sembra accusare alcun malessere; Elena e Matteo pure, a parte qualche piccolo
disturbo da raffreddore. Perfetto. Racconto in due minuti la mia odissea
notturna, più con l’intenzione di far ridere che quella di farmi commiserare; due
parole con Nabaraj, tanto per informarlo dei fatti, e poi senza battere ciglio
mi trovo già in cammino con lo zaino in spalla. Anche oggi si scende parecchio
prima di trovare il solito tratto piano e la risalita verso Dingboche.
Nonostante ci sforziamo di apparire sereni e tranquilli cominciamo a temere il
peggio e abbiamo la testa piena di pensieri neri, molto più neri delle nuvole
che ci accompagnano. Finalmente però stiamo uscendo dalla zona boscosa, vediamo
la roccia, le pareti quasi verticali e le creste dure e aspre che ci
aspettavamo. Adesso sì che siamo in un mondo diverso dal nostro, con quelle
cime bianche che si lasciano vedere solo di sfuggita nella coltre grigia. Siamo
così abituati alla pioggia, o forse siamo così rassegnati, che parliamo solo di
quello che c’è attorno a noi. E’ innegabile tuttavia che siamo deboli, non
malati, ma certamente meno forti di quanto dovremmo essere a questo punto del
cammino. 

Sui pendii che scendono ripidi
verso il fiume c’è ormai una linea orizzontale chiaramente visibile: è la linea
della neve, che segnala in maniera evidente la quota oltre la quale la nostra
pioggia infame è diventata più densa. Nabaraj dice che di solito quella riga
non c’è e che è molto raro trovare la neve qui, in questa stagione. Bene - gli diciamo
- che culo! Lui ride anche se non ha capito la parola, ma il senso
evidentemente gli è chiaro. Mentre percorriamo il tratto
piano ci sembra quasi di vedere qualche puntino azzurro tra le nuvole. Forse è
suggestione, forse lo vediamo perché lo vogliamo vedere, ma è certo che
possiamo toglierci il poncho perché piove un po’ meno. Prendo coraggio, ignoro
i sintomi del mal d’altura e quelli influenzali e sfido apertamente il cielo
estraendo, per la prima volta in tre giorni, la macchina fotografica dallo
zaino. Faccio anche qualche foto mentre la linea bianca è sempre più vicina a
quella nera del sentiero. Poco prima di Dingboche inizia la
neve. Non qua e là sulle pareti rocciose, proprio sul sentiero: ci camminiamo
dentro. Quasi non piove più, ma siamo stanchissimi e infreddoliti; tutti i
piccoli malesseri sembrano diventare grandi proprio adesso o sembrano crescere
insieme alla quota sul livello del mare. Tsè… il mare, oltre quattro chilometri
più in basso. E’ incredibile pensare di essere in un posto in cui le montagne
cominciano quando da noi finiscono, come se ci fosse una Marmolada intera sopra
la Marmolada e sopra ancora un altro pezzettino. E’ un paradiso per chi come
noi ama la montagna. Non c’è niente a parte qualche agglomerato di case, il
sentiero e le colonne di yak che vanno su e giù a portare provviste. Ci sembra
quasi di vedere le file di portatori che nel secolo scorso salivano da qui per
andare ad attaccare le vette più alte del mondo, ci sembra di sentire la forza
e il coraggio degli alpinisti che venivano qua e si trovavano isolati da tutto
come se fossero stati su un altro pianeta. Davvero ci rendiamo conto che
organizzare una spedizione quassù o un viaggio sulla Luna doveva essere più o
meno la stessa cosa. E pensare che oggi ci sembra normale parlare di telefoni
satellitari, di wi-fi e di connessione internet nei rifugi. 

Dopo un tornantino si apre una lunga
e ampia spianata e là in fondo si vede Dingboche, un insieme di tetti colorati,
di lamiere e muri tirati su un po’ così, tutto immerso nello scenario sereno
che solo la neve sa creare. Ai lati favolose pareti rocciose, a destra l’Ama
Dablam che sovrasta tutto con la sua superba doppia cima. E’ un’immagine
stupenda. Purtroppo non ne godiamo quanto dovremmo perché siamo veramente provati,
la giornata è stata infernale e l’ultimo tratto ci sembra infinito. Camminiamo
in trenta centimetri di neve. In alcuni tratti il sentiero sparisce e seguiamo
quelle che sembrano tracce di qualcuno passato prima di noi. Poca roba. A volte
ci troviamo davanti veri e propri laghetti, altre volte le pozze d’acqua sono
nascoste dalla neve fresca, altre ancora ci troviamo troppo in alto o troppo in
basso rispetto a quella che dovrebbe essere la posizione del sentiero vero. 


All’inizio del paese scopriamo
che il rifugio che dovevamo occupare non ha posto e quindi staremo in un altro.
Il motivo è semplice: da tre giorni nessuno riesce ad andare su e tanti sono
tornati giù dalle quote più elevate. Nessun problema, se non che questo “altro
rifugio” è alla fine del paese, quasi un chilometro più avanti. Dingboche è
sparpagliata su una linea lunghissima e il pensiero di dover fare ancora un po’
di strada ci uccide. Per fortuna non piove più. Mentre ci buttiamo sui sacchi a
pelo per riprendere un po’ di forza ci rendiamo conto che i tre giorni di
marcia sotto la pioggia stanno ora reclamando il loro tributo. Sarà il mal di
montagna, il freddo o altro, non lo sappiamo; di sicuro siamo deboli. Nabaraj
ci cura e ci custodisce come una mamma, ci riempie dei suoi rimedi miracolosi,
dalla schifosa garlic soup all’hot lemon, dal balsamo di tigre da spalmare
sulla testa all’acqua e sale bollente. Io prendo mezza compressa di Diamox ed
Elena fa lo stesso, Matteo invece sembra avere il mio stesso malessere della
notte, ma in forma decisamente più lieve, l’unica che pare completamente a
posto è Sabrina, quella che per tutto il percorso ha quasi sempre chiuso la
fila e che adesso sembra il cavallo giusto su cui puntare un euro per la
vittoria finale. Ma nessuno molla, nessuno si abbatte, nessuno pensa di cedere
un centimetro. Mentre li guardo mi dico che siamo proprio una squadra forte e
che sono contento di aver intrapreso questa avventura con questi eccezionali
compagni; prego solo che il tempo ci conceda una chance e che ci permetta di ottenere
quello che meritiamo. 

La sala comune è calda e
accogliente, sembra un rifugio alpino con la stufa e le panche di legno sotto
le finestrone affacciate sulla valle. Che spettacolo questa vallata! Siamo già
innamorati dell’Ama Dablam. Ancora più bello adesso che le nuvole lasciano
vedere larghe parti di cielo e che la luna può illuminare tutto. Seduti ai tavoli ci sono molti
escursionisti e dai discorsi che fanno capiamo che i trenta centimetri di neve
che vediamo qui sono solo l’aperitivo di quello che ci aspetta. Come temevamo,
alle quote più elevate la pioggia che abbiamo trovato fin qui è stata neve. Non
possiamo neanche immaginare quanta ne può cadere quassù in tre giorni. Dicono
che verso Lobuche ce n’è molta, mezzo metro sopra Dingboche e poi di più,
mentre nella zona di Gorak Shep parlano di metri, anzi per la precisione
Nabaraj ci dice che ce n’è più di due gambe. Adesso capiamo perché sono fuggiti
tutti e ci rendiamo conto che in queste condizioni, se il tempo non migliora, è
tecnicamente impossibile tentare qualsiasi ascesa al Khala Pattar. Alla precisa
domanda Nabaraj risponde testualmente nel suo inglese-nepalese “not impossible,
but more more difficult”, ma si vede che non ci crede molto neanche lui. Dobbiamo decidere cosa fare, ma è
difficile rimanere perfettamente lucidi e sensati in una situazione così
emotivamente complicata. Discutiamo sulle varie opzioni, preghiamo per il bel
tempo e concludiamo che domattina decideremo il piano in base alle condizioni
meteo. In realtà nessuno di noi ha la benché minima intenzione di tornare
indietro proprio adesso, a pochi passi dalla vittoria. Di sicuro non possiamo
permetterci di perdere neanche un giorno perché poi non avremmo modo di
raggiungere Lukla in tempo per il volo di ritorno in Italia. O si va su domani o non si va
più.
mercoledì 16 ottobre: DINGBOCHE – LOBUCHE L’orologio segna un doppio 6, le
ore e la temperatura, ma in camera c’è più luce del solito. Sarà il bianco
della neve. Invece non è solo la neve, il cielo è limpido, senza una nuvola. Lo
spettacolo della valle di Dingboche, tutta bianca con quella fila di cime di
qua e di là, è una cosa che non si riesce neanche a descrivere. Il riflesso del
sole sulla neve ci abbaglia, non riusciamo a tenere gli occhi aperti, ma non
riusciamo a distogliere lo sguardo, siamo quasi ipnotizzati di fronte a quello
che vediamo. Allora è così che doveva essere! Un minuto di visione ci ripaga di
tutti gli sforzi e quasi ci fa dimenticare quello che è stato fino a ieri. Di
fronte a tanta meraviglia siamo quasi disposti a perdonare. Quasi. Il sole però
ci fa anche comprendere meglio la realtà delle cose; solo ora che vediamo tutto
ci rendiamo conto della situazione, di quanta neve sia caduta qui, in quella
che è la zona meno colpita di tutte. 
A colazione non sappiamo se
essere contenti o arrabbiati. Contenti perché c’è il sole, perché è tutto
bellissimo, arrabbiati perché sappiamo che probabilmente non basterà. Doveva
arrivare ieri o il giorno prima. Come farà questo sole a sciogliere i due metri
di neve del Khala Pattar entro domani?! E se anche dovesse sciogliere tutto,
quale mare di fango e acqua troveremmo lassù, a Lobuche e oltre?! Però non
possiamo pensare adesso a quello che sarà stasera o domani, bisogna decidere
cosa fare. Cosa fare: come si fa a rinunciare di fronte ad una giornata del
genere? E’ tutto perfetto, a parte noi. La notte è stata un po’ travagliata per
tutti e lo sforzo dei tre giorni di pioggia è ben disegnato sulle nostre facce.
Ma come si fa?! L’Ama Dablam risplende come un gioiello e sembra benedire ogni
idea, ogni tentativo, ogni impresa. Andiamo! 

L’acqua bollente con le gocce di
cloro fa più schifo del solito, la neve è alta e si attacca alle scarpe che si
attaccano al terreno, gli zaini sembrano più pesanti e l’aria entrando quasi
inciampa nei polmoni. Ma chissenefrega! Stiamo camminando in uno scenario unico
al mondo, ci siamo dentro e siamo qua a fare foto a 360 gradi. Al piccolo stupa
che sovrasta il paese ci fermiamo e chiediamo una foto a Nabaraj: siamo noi
quattro, uniti e sorridenti sotto le bandiere di preghiera, attorno a noi è
tutto azzurro o bianco. Da lì comincia il vero cammino verso Lobuche. Dai che ce la facciamo, dai che
adesso il sole fa presto a sciogliere tutto, dai… forza ragazzi, andiamo
avanti, ce la facciamo! Invece è dura. Durissima. Il sole
picchia e nonostante la crema sentiamo che ci brucia la faccia, il sentiero si
vede e non si vede, la neve è veramente troppa e fatichiamo tantissimo per
avanzare, tutti i nostri malesseri sono amplificati. Ogni cento metri siamo
fermi con la scusa di fare una foto, di bere un sorso d’acqua, di soffiarci il
naso, di aspettare l’altro che beve o che si soffia, di far passare un
portatore. Non c’è praticamente nessuno. Lottiamo per un’ora, poi un’altra, poi
ancora un po’, ci rendiamo conto di essere troppo lenti: questo tratto di
strada l’avremmo dovuto fare in metà tempo. 

Attorno a noi è tutto bianco. Uno
spettacolo favoloso e terribile al tempo stesso. Ogni tanto sentiamo un tuono
in lontananza, la prima volta ci giriamo per cercare qualcosa che non vediamo:
è una valanga e quello è il rombo che produce. Non siamo in pericolo e non ne
vediamo neanche una, però sentirne il ruggito così da vicino fa un certo
effetto. Davanti il sentiero si perde nel bianco e spesso dobbiamo superare
pozze insidiose che non vogliamo misurare finendoci dentro. Ci mancherebbe solo
questa. Siamo lenti. Nabaraj dice che per
lui non c’è problema, però continuando di questo passo arriviamo a Lobuche che
è buio e sarebbe meglio evitare di trovarsi in mezzo a tutto questo senza
neanche vedere dove si mettono i piedi. Dice che mancano ancora 6-7 ore… Ma
come?! Dovevamo impiegarne 7 in tutto! Sì, però la neve ci rallenta – dice – ci
vuole di più, molto di più. E poi tra poco è più alta, ce ne sarà una gamba. 


Dai, dobbiamo andare un po’ più
veloce… forza... proviamoci! Non ci riusciamo, sembra di avere una corda
invisibile che ci trattiene, avanziamo ma i passi sono brevi, brevissimi,
troppo corti. Siamo troppo lenti. Lottiamo ancora un po’, forse un’ora, forse
meno, Nabaraj è solo un po’ più avanti che ci aspetta, ma io lo vedo
lontanissimo, così come lontanissima e altissima è la cresta che dobbiamo
superare per prima. A quanto saremo? Boh… 4600… 4700... forse 4800… non ha
nessuna importanza. Vedo noi che arranchiamo su questo sentiero che non è un
sentiero e all’improvviso mi sorprendo a dire una cosa che non avrei mai voluto
dire: “Ragazzi…”. Mentre pronuncio la prima parola già rivedo tutto quello che
è stato e quello che non è stato. Le mail di Om, le foto di chi è già passato
da qua, l’eccitazione del provarci, gli sposi che vengono con noi, il volo
verso Lukla, il sole, la pioggia, Nabaraj col sacchetto in testa, la visione
della punta dell’Everest, le ruote di preghiera, il cestino col sacchetto dentro,
l’hot lemon e il lassi, noi che saliamo e discutiamo su come metterci in posa
in cima al Khala Pattar per non coprire le vette dietro di noi, la gioia, il
trionfo, l’emozione, la neve… "Ragazzi… dobbiamo essere
onesti". Mai e poi mai avrei pensato di
dover arrivare a questo punto, mai neanche negli incubi più neri, mai in
nessuna catastrofica previsione, in nessun piano alternativo c’era questa
scena. Le condizioni però sono veramente proibitive. Non ce la possiamo fare.
Nabaraj prende atto della decisione e anche se la approva con decisione si vede
che è dispiaciuto. Non tanto per lui, che tanto fra un po’ ci torna, è
dispiaciuto per noi. Col cuore spezzato ci voltiamo e
torniamo indietro. Abbiamo perso il Khala Pattar. Sabrina piangeva prima ancora
che io finissi di dire “ragazzi”; mi conosce troppo bene, sapeva già cosa avrei
detto. Io mi trattengo solo per il tempo di girare le spalle e prendere la
testa del gruppo, che un minuto fa era la coda. Parto da solo, davanti a tutti,
non mi giro neanche a vedere quanto sono bagnate le facce degli altri. Ho perso
il Khala Pattar. Non so neanche se sono deluso, arrabbiato, sollevato, forse
tutto insieme, forse sto sognando, forse sono morto. No, sono vivo. Maledico il
cielo, il mondo, me stesso, la pioggia, la neve, il fato, la sorte, tutte le
divinità che conosco e perfino gli invidiosi che gufano da casa, maledetti stramaledetti
loro. Non so neanche se lo faccio a voce alta o solo nella mente. Mi viene
voglia di buttarmi di lato nella neve, di lasciarmi cadere a peso morto con la
faccia in giù. E poi cosa faccio, aspetto che mi raggiungano per consolarmi?!
No, non me ne frega niente. Procedo. Ricalpesto la neve già calpestata e
piango, piango per tutto il percorso come un bambino senza regalo di natale, con
le lacrime che scendono da sole senza controllo, quasi non vedo dove vado. Sono
velocissimo, dietro di me non sento nessun rumore. Arrivo allo stupa in un
secondo, forse due, mi giro e gli altri non ci sono; li vedo lontanissimi nel
bianco, uno, due, tre, Nabaraj… ci sono tutti. Trovo la forza e il coraggio di
fare qualche altra foto, è uno spettacolo stupendo. Ridiscendo in paese e mi bagno
tutto: il sole ha già iniziato a sciogliere la neve che adesso forma rivoli
d’acqua e fango, pozzanghere e piccole slavine che ad ogni passo mi ricoprono
le scarpe. Scivolo un passo sì e un passo no. Maledizione, che situazione di m…
Se qui è così, chissà cosa poteva essere lassù. Ma come facevamo ad arrivarci,
lassù!? Era impossibile, dai. Mi fermo poco prima del lodge, chissà se
dormiremo ancora qui, meglio aspettarli. Del resto, dove posso andare? Mi
appoggio a un muretto, qualcuno mi passa accanto, ma non lo vedo, non mi sposto
neanche per farlo passare. Adesso sì che sono morto. No, neanche adesso. Per
fortuna ho gli occhiali, non mi vede nessuno, riesco a ricompormi un pochino.
Eccoli che arrivano. 

Seduti in fila sulle stesse
panche che avevamo lasciato stamattina non abbiamo forza e voglia sufficienti
per parlare. Del resto non c’è molto da dire o da commentare. Abbiamo perso il
Khala Pattar. Non serve spiegare niente a chi ha i nostri stessi sentimenti,
quindi rimaniamo in silenzio e cerchiamo di riprenderci. Siamo provatissimi.
C’è un colpevole? Forse no, forse siamo solo stati sfortunati, forse non
eravamo abbastanza forti per sostenere condizioni meteo del genere. Molto più
probabilmente c’era troppa neve per camminare ancora e se anche fossimo andati
avanti non avremmo comunque potuto raggiungere le quote più alte. Dobbiamo
ammettere che è stata la scelta migliore che potessimo fare, forse l’unica
decisione che potevamo e dovevamo prendere. Mi costa tantissimo ammetterlo, ma
in queste condizioni non ce la potevo fare. Sabrina cede di schianto,
all’improvviso. Sta male, non tanto da non camminare, ma abbastanza da non
alzarsi dal sacco a pelo. Nabaraj le somministra tutti i suoi rimedi
miracolosi, ma io sono convinto che le cause non siano fisiche, quanto
piuttosto morali. E’ un colpo difficile da assorbire, una delusione che non
digeriremo tanto facilmente. Non riesco a darmi pace, neanche oggi che a quasi tre
mesi di distanza scrivo il diario. Ma possibile che proprio a noi dovesse
capitare una stagione come questa?! Nabaraj dice che la maggior parte degli
escursionisti che ha accompagnato si sarebbe fermata ben prima, che siamo stati
bravi ad arrivare fin lì. Magra consolazione. Lo stesso Ohm, quando l’ultimo
giorno lo andremo a salutare a Kathmandu, ci farà i complimenti e dirà che in
trent’anni di attività non ha mai visto una cosa del genere. Inoltre ci confesserà
che se anche fossimo arrivati a Lobuche non ci avrebbero fatto proseguire fino
al Khala Pattar perché sarebbe stato tecnicamente impossibile salire. Scopriremo
poi a casa, dai notiziari, che il Nepal ha vissuto il monsone più lungo degli
ultimi cinquant’anni, tanto lungo che la stagione secca di ottobre in pratica
non è esistita. Ma che gran culo abbiamo avuto! Chissà perché queste notizie
non ci confortano, ma anzi ci fanno arrabbiare ancora di più. Io sono proprio
avvelenato e non dimenticherò mai questa delusione; la prendo quasi come
un’offesa personale. Speriamo che arrivi presto la
sera, speriamo di addormentarci e di risvegliarci in fretta, per lasciarci alle
spalle queste meraviglie prima possibile. Domani scendiamo con la certezza di
stare meglio e la speranza di vedere, almeno sulla via del ritorno, quello che
non abbiamo potuto vedere all’andata. 
giovedì 17 ottobre: DINGBOCHE – TENGBOCHE Evidentemente la splendida
giornata di ieri è stato un episodio. Quasi una trappola, un inganno per ingolosire
chi come noi desiderava più di ogni altra cosa salire più in alto possibile.
Stamattina il cielo è di nuovo coperto: non c’è più il bel sole pulito di ieri,
ma almeno non piove e ci sono alcuni squarci azzurri. Per come siamo stati
abituati ci viene da dire che è una bella giornata. Che stagione assurda
abbiamo trovato. Torniamo verso Tengboche con la
chiara e solida consapevolezza che non potevamo fare diversamente, che non
potevamo prendere una decisione diversa. Questo non diminuisce certo il dolore
e il dispiacere, ma quanto meno ci assolve dalle colpe più gravi. Nonostante
tutto qualche sciocco a casa dirà che non poteva andare diversamente, che non
siamo alpinisti e che la neve ha solo anticipato un inevitabile fallimento…
Gente che al massimo è arrivata al Pordoi in funivia. Passerò interi giorni ad
ignorare questi stupidi commenti, tuttavia non dimenticherò. Non dimenticherò
nemmeno le parole sincere degli amici del forum che da subito, appena appresa
la notizia, ci hanno sommerso con il loro affetto e la loro simpatia. Qualcuno
ricorda un pensiero di Edward Whymper, il conquistatore del Cervino, e lo posta
tra i nostri messaggi; mi piace ricordarlo ancora una volta, anche se
rileggerlo mi è di ben poco conforto: "Provai gioie troppo grandi per
poterle descrivere, e dolori tali che non ho ardito parlarne. Con questi sensi
nell'anima io dico: salite i monti, ma ricordate coraggio e vigore nulla
contano senza la prudenza; ricordate che la negligenza di un solo istante può
distruggere la felicità di una vita. Non fate nulla con fretta, guardate bene
ad ogni passo, e fin dal principio pensate quale può essere la fine.". Non bisogna comunque
drammatizzare. I problemi veri sono altri e noi non siamo qui a parlare di una
tragedia o di un delitto, ma solo di una vacanza in montagna. Anzi, in collina.
E’ solo che in quel momento i sentimenti sono così travolgenti che non si può
fare a meno di vedere tutto più grande e definitivo di quello che è. E’ un po’
la storia della carta igienica e della doccia. 









Subito la diminuzione di quota ha
effetti positivi; metro dopo metro la discesa ci riconsegna le energie. Fuori
da Dingboche c’è decisamente meno neve e senza il tormento della pioggia camminare
è più facile. Ci sfilano accanto tutte le montagne che all’andata erano solo
confusi corpi senza testa, ammiriamo la profondità e l’altezza, ci godiamo
finalmente il trek in condizioni più umane. Siamo veloci, il percorso non
sembra difficile e ben presto siamo a metà strada. A tratti esce anche il sole.
Ci fermiamo a pranzare presso un bel ristorantino con un’ampia terrazza da cui
si vede tutta la valle fino alle creste più alte, laggiù in fondo. Più alte di
tutte il Lhotse e l’Everest. Sembrano quasi parte delle pareti in primo piano,
in realtà sono parecchi chilometri dietro e quello che vediamo è solo la
sommità che emerge da dietro. Tentiamo di misurare i sentimenti che ancora
proviamo noi adesso con l’emozione che devono aver provato i pionieri che
andavano a conquistare la cima. Contemplare simili scenari è un privilegio che
non dimenticheremo mai. Indugiamo a tavola più del
solito, non tanto per fame, quanto piuttosto per fissare più a lungo la
cartolina che segna il nostro orizzonte. Quando Nabaraj finge di incamminarsi
senza di noi finalmente ci muoviamo e riprendiamo la discesa. Si cammina bene e chiacchierando
arriviamo a Tengboche senza sforzo, decisamente in anticipo rispetto alla
tabella di marcia. Purtroppo ormai il cielo è coperto, ma c’è tempo per fare un
altro giro al monastero. Stavolta non è prevista alcuna cerimonia, così
possiamo entrare e scattare foto liberamente. 






Dietro alla costruzione
principale ferve l’attività di un cantiere: pare che si stia realizzando un
ampliamento. Nessun mezzo meccanico, nessuna gru ovviamente; perfino le assi di
legno, quelle lunghe 3-4 metri, vengono ricavate a mano dal tronco intero di un
albero. A mano! Due falegnami sono letteralmente sepolti da trucioli grandi
come le ciabatte che calzano. C’è un tipo che scava in un buco profondo un paio
di metri; con la sua pala però non riesce a gettarsi la terra sopra la testa e
allora c’è un altro sul bordo della fossa che lo aiuta tirando una corda legata
alla stessa pala. In pratica una catena di montaggio umana, uno spalatore fatto
da due uomini. Incredibile. Ogni tanto arriva un portatore con dei tondini di
ferro legati sulla schiena, ogni tanto uno con delle tavole di legno, ma vuoi
che vengano su a piedi da Lukla o da Namche!? In effetti, pensandoci, è
possibile, perché non possono mica usare sempre l’elicottero per queste cose.
Un po’ gli yak, un po’ i buoi, un po’ le persone. Mamma mia che popolo!
Senza la pioggia battente
dell’ultima volta lo spiazzo che conduce al lodge è tutta un’altra cosa. Anche
il lodge e i suoi spazi sembrano luoghi diversi e decisamente più semplici e
comodi da usare. Scopriamo pure che dietro al massiccio portale, che allora
trovammo chiuso, c’è la nuova ala della struttura con corridoio coperto e bagni
interni funzionanti con un normale impianto di scarico. E pensare che siamo
stati costretti ad usare quella cosa di lamiera. E’ innegabile che ora tutto
abbia un nuovo sapore e un nuovo aspetto. Le stesse camere sono meno fredde. Anche in sala non c’è più la
stessa ressa e nessuno si accalca per appendere abiti bagnati. Notiamo anche
particolari cui non avevamo fatto caso, tipo una foto di Messner appesa in un
angolo. Durante la cena lo facciamo notare a Nabaraj, tutti gonfi di orgoglio tricolore,
che Messner di qua e Messner di là, che ha fatto l’Everest centocinquanta
volte, che una volta è andato su senza ossigeno, un’altra da solo, un’altra
bendato con una mano legata dietro la schiena… Lui non fa una piega, ci lascia
blaterare un po’ e poi con la faccia furba di chi la sa lunga dice di averlo
sentito nominare, ma non sa di preciso chi sia. Aggiunge che le imprese di
questo signore non sono poi gran cosa: “qui tutti sono arrivati in cima, anche
un mio cugino, anche quelli che non hanno le gambe”. Come sarebbe quelli senza
gambe!? Sì, nel cesto, sulla schiena di un portatore. Aaah… beh… giusto… nel cesto!
Che stupidi a non averci pensato prima! 



venerdì 18 ottobre: TENGBOCHE – NAMCHE BAZAR Passiamo la colazione a discutere
allegramente su come potremmo farci infilare in un cesto per andare su anche
noi, insieme a quelli senza gambe. Stiamo bene.
La neve sembra una cosa lontana anche se fino a ieri c’eravamo dentro
fino al ginocchio. Del resto è inutile continuare a riesaminare le cose come in
un infinito replay. Fuori purtroppo il cielo è
coperto e anche dal view point dietro al monastero non si vede niente di
speciale. Lancio qualche altra piccola maledizione, tanto per non perdere
l’abitudine, imprecando contro questo cielo che neanche mentre ci ritiriamo ci
concede un po’ di soddisfazione. Più giù nella valle però ci sembra di vedere
un certo chiarore, chissà che andando verso Namche non troviamo un
miglioramento. E allora via, giù per il sentiero
a rifare al contrario quella lunghissima salita. Adesso sembra tutto più
facile, probabilmente perché lo è davvero e perché più scendiamo e più ci
sentiamo forti. Siamo così veloci che cominciamo a pensare di poter anticipare
di un giorno il rientro a Kathmandu, del resto una tappa Namche-Lukla era
prevista anche nel programma iniziale. Nabaraj sembra perplesso, forse
perché è seccato all’idea di dover modificare la prenotazione del volo o perché
teme che gli chiediamo uno sconto per il giorno di trek in meno. Lo
rassicuriamo subito e in effetti pare tranquillizzarsi, tanto che comincerà a
fare telefonate e non smetterà fino a Namche. A questo punto almeno prendiamoci
un giorno in più a Bhaktapur, visto che tra l’altro Elena e Matteo non ne
avrebbero avuto neanche uno a causa del volo di rientro anticipato. Anche oggi come ieri incontriamo
tanti escursionisti che incrociando le nostre facce bruciate ci chiedono
notizie del tempo, della neve, della situazione alle quote più alte. Mmmh…
chissà perché ci sembra di aver già vissuto questi momenti. 








Siamo così rapidi rispetto alla
tabella di marcia di Nabaraj che decidiamo di rifare la deviazione per
Khumjung, stavolta al contrario, per provare a vedere l’Everest dal collinetta
che sovrasta il paese. Ci riusciamo per un pelo, poco prima di raggiungere la
sommità, poi le nuvole si richiudono tra noi e le catene più lontane. Almeno
abbiamo capito cosa avremmo dovuto vedere da qui. Capiamo anche cos’è Namche con un
po’ di sole, con tutte le montagne che fanno da favolosa cornice
all’anfiteatro. Finalmente uno spettacolo degno di questo nome: il paese è
letteralmente incastrato in questa gola e le pareti altissime che lo circondano
sono molto più imponenti di quanto avevamo immaginato. Ci rendiamo conto che
qui in condizioni ottimali ogni giorno è strepitoso. Chissà se mai torneremo
per verificarlo personalmente. 








sabato 19 ottobre: NAMCHE BAZAR – LUKLA Ormai siamo completamente
ristabiliti. Nabaraj ha paura che la strada fino a Lukla sia troppo lunga, ci
fa un po’ di terrorismo parlandoci della salita finale. Ma quale salita? Cosa
vuoi che sia rispetto a quello che abbiamo fatto finora? L’impressione è che
voglia indurci nuovamente a mantenere il volo originario, tra due giorni. Non
se ne parla nemmeno: se proprio non è possibile ok, ma se il problema è una
tappa un po’ lunga allora il problema non esiste. Stai tranquillo Nabaraj che
noi entro sera arriviamo a Lukla; tu pensa a telefonare e a confermare il volo
per domani. All’ora di pranzo finalmente la
conferma: siamo sul primo volo di domattina. Benissimo, almeno ci godiamo un
po’ il soggiorno a Bhaktapur. 


Abbiamo fatto questa stessa
strada solo una settimana fa, ma ci sembra passato un secolo. Quante emozioni
in mezzo, quanti passi, quanti pensieri! Sembra veramente una vita fa. Trottiamo su e giù senza alcuna
difficoltà, incontriamo qualche punto un po’ più difficile, ma niente che ci
possa mettere in crisi. Superiamo gli stessi ponti sospesi, le stesse rocce
scolpite e gli stessi villaggi. In uno di questi rischio grosso, perché
scendendo una ripida scalinata mi appoggio al masso che sta sulla sinistra per
far passare una vecchietta che sale carica come uno yak. L’arzilla signora mi
dice qualcosa prima di raggiungere il gradino su cui mi trovo e io da consumato
nepalese sorrido e saluto con le mani giunte in risposta alle sue parole. Questa
insiste più forte e un po’ meno amichevole allora mi schiaccio ancora di più contro
la pietra, forse pensa di non passare, ma passa… passerebbe una carovana!
Quando mi arriva alla distanza di un braccio alza il bastone che usa per
sostenersi e me lo agita contro facendo versi come per scacciare un demone; ma
cosa fa…? Insiste… questa mi mena col bastone! Insomma mi tocca indietreggiare
su per la scalinata finchè non mi accorgo che quattro o cinque gradini più in
su, sulla mia sinistra, c’è una scarpata sterrata che costeggia la pietra
dall’altra parte. Era una pietra sacra! Solo che le incisioni sono verso valle
e quella scarpatina che mi tocca prendere sembrava tutto tranne che un
sentiero. Altro che superstizione! Quella mi batteva come un tappeto. 


Scampato il pericolo continuiamo
a macinare metri, passo dopo passo, ammirando panorami che stavolta,
finalmente, sono meno belli di come li ricordavamo. Gli ampi squarci azzurri
non ci sono più e quando siamo in vista di Lukla è praticamente tutto coperto.
Percorriamo l’ultimo tratto quasi senza pensare: stiamo concludendo il trek e
proviamo un misto di soddisfazione e dispiacere, un insieme di sentimenti che
si mescolano e si confondono nella nostra testa. Superare l’arco lassù in cima
alla salita non è solo la conclusione della lunga tappa di oggi, ma è la fine
del percorso a piedi più impegnativo che abbiamo mai fatto. E’ la fine del
nostro primo trek himalayano che ci ha regalato tante emozioni, tanta gioia e
anche tanto dolore. Bravi ragazzi, bravissimi!
Complimenti a tutti. Ci abbracciamo e facciamo un brindisi immaginario al compimento
di quella che per noi è stata comunque una grande impresa. I pochi che passano
da lì ci guardano incerti, ma sicuramente capiscono cosa stiamo celebrando. Nabaraj ci conduce allo stesso
lodge in cui facemmo colazione il primo giorno e all’interno ci accoglie ancora
il boss, con la stessa faccia tranquilla dell’altra volta. Il volo di domani
pare essere confermato e stasera andrà lui stesso a prendere le nostre
prenotazioni. Davanti ad una tazza fumante
salutiamo e ringraziamo gli splendidi ragazzi che ci hanno fatto da portatori,
ci scambiamo gli indirizzi mail, le strette di mano e la promessa più o meno
sincera di tornare per finire quello che non abbiamo finito. Lasciamo a
ciascuno la propria mancia, a Nabaraj il poncho che usò quel giorno a Namche e
ad uno dei ragazzi gli scarponi di Elena. All’altro avevamo già comprato gli
occhiali da neve a Dingboche. Sì, perché ovviamente non erano preparati neanche
loro a queste condizioni, visto che non era mai successo e mai poteva
succedere. Appunto. Sono bravi ragazzi. Erano lì la
mattina del nostro arrivo e a un certo punto, da un secondo all’altro, si sono
trovati in cammino con noi con la prospettiva di stare in giro per dieci
giorni. Saranno anche abituati, ma riflettere su queste cose ci fa pensare a come
sia diversa la prospettiva da queste parti. 


Prima di cena facciamo anche un
giretto in paese, scopriamo che c’è uno Starbucks (!!!) e la connessione gratis
ci attira più di quanto i prezzi fuori dal mondo ci respingono. Mentre
aggiorniamo amici e parenti sulle nostre ultime avventure comincia a piovere
forte. Faccia un po’ quello che vuole, tanto il boss ha detto che domani si
vola. Mamma mia che stagione assurda! 

domenica 20 ottobre: LUKLA – KATHMANDU – BHAKTAPUR Sveglia alle 6, niente colazione
perché abbiamo il primo volo del mattino e con questi aeroplanini non si sa
mai. Il boss è già in aeroporto a predisporre tutto per noi, alle 6:30 telefona
in hotel e ci dice andare subito perché tocca a noi. Via di corsa, zaini in
spalla, borsoni e documenti in mano. C’è un timido sole e il cielo è abbastanza
pulito, non c’è neanche vento. Perfetto. Assaporiamo già il lassi che ci
spareremo tra un’ora appena arrivati a Kathmandu. E invece no, niente lassi. Lo
stanzone delle partenze sembra una stazione di taxi governata da tre o quattro
potentissimi personaggi, uno è indubbiamente il boss, che piazzano i loro
protetti su un aereo o su quell’altro, smerciano le carte d’imbarco come
fossero volantini pubblicitari e a chi tocca tocca. Il nostro povero Nabaraj è decisamente
impotente qua dentro. In più noi abbiamo cambiato il volo, quindi le situazioni
erano già definite e gli accordi già presi. Infatti il boss ci dice subito che
non partiamo col primo volo perché prima devono andare quelli di quella
comitiva laggiù. Pazienza. Aspetteremo un pochino, cosa vuoi che sia. Purtroppo
il secondo volo diventa il terzo e poi non diventa più niente; la gente arriva
e parte e a noi non tocca mai. Il boss scompare e riappare e ogni volta ci dice
di aspettare lì. A un certo punto arriva e dice che c’è un posto sul volo che
sta per partire adesso. Ma come un posto? Sì, uno di voi può partire. E adesso
cosa facciamo? Chi va? Vado io, vai te, ma no… alla fine mandiamo Nabaraj. Ci
sembra la cosa più sensata da fare, così mentre ci aspetta può telefonare e
organizzare al meglio il trasferimento a Bhaktapur. Lui è incerto, ci
raccomanda al boss e poi va. Ma sì, non ti preoccupare, tanto tra poco tocca a
noi. Si fanno le 10 e poi le 11 e le
12, cominciamo ad avere fame, ma ormai siamo arrivati a questo punto,
resistiamo ancora qualche minuto. Chissà se Nabaraj è davvero là che ci
aspetta. Ma sì, dove vuoi che vada. Arriva insieme al boss la notizia che il
nostro aereo ha avuto un guasto, quindi siccome la compagnia (la stessa
dell’andata, chissà poi perché) ha solo due velivoli, dobbiamo aspettare che
quello in pista vada a Kathmandu e ritorni. Incredibile. Il boss comunque è
tranquillo e per dimostrarlo si gioca tutto con l’ultima frase che lo sentiremo
pronunciare: “You will fly today.”. Non lo rivedremo più. Mitico il boss! Nel frattempo il sole che prima
era timido è sparito del tutto, s’è alzato un po’ di vento e le nuvole si
ammassano da tutte le parti. Ci manca solo questa. Quando finalmente giunge la
nostra ora sono le 14:30 e il cielo è nero. Per fortuna decolliamo e lasciamo dietro
di noi le montagne che ormai non si vedono più. Qualche scossone, ma niente di
preoccupante: arriviamo a Kathmandu sani e salvi e il buon Nabaraj è lì sotto
la tettoia che ci saluta agitando un braccio. Ha aspettato sei ore senza
spostarsi, perché anche lui pensava che potessimo arrivare da un momento
all’altro.
Ci sono due taxi pronti per
andare a Bhaktapur. Ripiombare nel traffico è un vero choc, siamo stati in un
mondo troppo diverso per ricordare i clacson della capitale. Tuttavia cambiare
aria ci fa bene e, pur essendo comprensibilmente provati, sentiamo nuovi
stimoli, quasi fossimo all’inizio di una nuova vacanza. In effetti è un po’
così. A Bhaktapur scopriamo che per
qualche motivo il nostro hotel non ha camere disponibili, ma i proprietari
hanno una seconda struttura, proprio in Durbar Square. E allora via coi borsoni
e gli zaini a Durbar Square, paghiamo l’ingresso (1100 rps) e ci conquistiamo l’hotel (Shiva Guest House, Durbar
Square, Bhaktapur 11; tel. 977.1.6613912; bisket@wlink.com.np; shivaguesthouse.com).
Anche qui però ci sono problemi, hanno solo una camera e per una notte due di
noi potranno stare nell’hotel vicino (Golden Gate Guest House, Durbar Square,
Bhaktapur; tel. 977.1.6610534 - 66112427; goldengate@mail.com.np; goldengateguesthouse.com).
Nessun problema, ci mancherebbe, basta che possiamo toglierci questi vestiti
stra-usati e andare a mangiare qualcosa. Riaccompagnamo Nabaraj al taxi e
nonostante lui dica che forse verrà personalmente a prenderci per portarci in
aeroporto sappiamo che non sarà così. Ci stiamo separando qui, adesso, davanti
alla bella piazza di Bhaktapur tra queste macchine che bloccano il traffico.
Dopo tanti giorni passati insieme, dopo tutto quello che abbiamo fatto insieme,
ci sembra impossibile pensare di muoverci senza di lui. Non per insicurezza, ma
perché la sua figura discreta e gentile è diventata ormai parte di noi, adesso
lui è uno del gruppo. Strette di mano, con due mani, mille benedizioni e auguri
di ogni tipo, buona fortuna, buon viaggio, arrivederci… Si vede che è
dispiaciuto, dice che gli dispiace per quello che non è stato, ma non è colpa
sua, poverino, nessuno può pensare una cosa del genere; si vede che anche lui
si è un po’ affezionato a noi. Quasi non parla e anche noi facciamo un po’
fatica. Non ce n’è bisogno, non serve mica parlare, basta una pacca sulla
spalla. Non lo dimenticheremo mai. Io sono l’ultimo… chissà se ci rivedremo… mi
sa che non ci rivediamo più… Mi commuovo un po’ perché tanto lo so - però non è
che posso star sempre a piangere – e anche lui mentre mi abbraccia. Mentre mi
allontano col braccio alzato gli dico ciao Nabaraj, fai il bravo – proprio così
in italiano – lui si passa un dito dietro gli occhiali e mi dice “yes yes, bye
bye Alesander.” Non l’ha mai saputo dire bene.
Due passi e siamo di nuovo in
piazza. Come turistelli al primo giorno di gita ci facciamo spennare da un
ristorante con terrazza panoramica, ma non importa, siamo affamati, e poi fino
a poche ore fa eravamo a camminare in cima al mondo. Il cameriere non è nemmeno
arrivato al tavolo che già dice: “Trek?”. Poi si segna il viso e capiamo che le
nostre facce parlano da sole.
Il primo impatto con Bhaktapur è
molto positivo, ci piace l’atmosfera decisamente più rilassata e anche la
piazza sembra più bella, più ricca e curata di quella di Kathmandu. Riusciamo
anche a fare due passi prima di concederci un paio d’ore di riposo. Stasera ci concederemo una cena
speciale, di quelle che devi dire basta, per celebrare la fine del trek.
Dovremo pur festeggiare in qualche modo! (New
Watshala Garden Restaurant, Durbar Square, Bhaktapur; tel. 977.1.66110957; watshalagardenrestaurant@hotmail.com
– 3509 rps in quattro - consigliatissimo)



lunedì 21 - martedì 22 ottobre: BHAKTAPUR La colazione della Shiva Guest
House è una delle più ricche e gustose che abbiamo mai provato. Sembra
esagerato, ma davvero siamo rimasti colpiti. Dolce, salato, nepalese, cornetti,
pane, uova, tutto quello che si vuole con refill illimitato. E non si tratta di
un buffet, ma di cose preparate e servite al tavolo. Scopriamo anche con orrore
che il lassi non c’è: qui fanno una specie di cagliata che chiamano
semplicemente yoghurt o juju dhau. Con molto meno dispiacere ci rendiamo conto
che forse è meglio del lassi e che la dipendenza che crea è ancora più potente.
Ci spiegano che in sostanza il lassi non è altro che il juju dhau con aggiunta
di acqua. Inutile dire che l'hotel è super consigliato per qualunque soggiorno
a Bhaktapur: il cibo, le camere, il servizio, il ristorante, la posizione...
tutto di ottimo livello. 








Gli eventi dei giorni scorsi ci
hanno regalato una mezza giornata in più da trascorrere insieme, così ci
dedichiamo all'esplorazione della città con tutta la calma possibile. Per
fortuna è subito chiaro che non ci sono molti negozi di articoli da montagna,
altrimenti avremmo rischiato la dannazione eterna nel girone di quelli con la
mani bucate. Abbiamo invece tempo di seguire
gli itinerari a piedi consigliati dalla lonely, di fermarci ad ogni angolo per
fare foto e di spingerci anche fuori dai percorsi tradizionali. Davvero molto
bella questa cittadina, ci piace un sacco e ci convince sicuramente più di
Kathmandu, da tutti i punti di vista. Durbar Square, il palazzo reale e
Taumadhi Tole occupano in pratica la stessa piazza, mentre la favolosa Tachupal
Tole, l'antica piazza centrale, è un po' più distante verso est. E' un piacere
raggiungerla seguendo le mille stradine e superando le mille piazzette che
all'improvviso si aprono davanti a noi. In particolare quella dei vasai
merita una sosta, tanto che Matteo si fa catturare da un omino che lo invita a
fare un vasino insieme a lui, col fango sulla ruota di pietra. Ovunque ci sono
vasi, vasetti, ciotole, tutti stesi ad asciugare su larghi teloni che occupano
quasi tutta la piazza: i passaggi pedonali sono ridotti a stretti sentieri tra
distese di vasellame grigio. Oltre il fiume l'atmosfera è
ancora più rilassata, i turisti sono quasi inesistenti e solo qualche carretto
passa cigolando a rompere la polverosa quiete delle strade sterrate. Assistiamo
brevemente, per caso, anche a un rito funebre, proprio in corrispondenza di
un'ansa del fiume riparata dagli alberi, che ci riporta per un attimo con la
mente a Pashupatinath. Il contesto è sicuramente meno grandioso, ma i gesti e
l'intensità sono gli stessi, così come il desiderio di non disturbare che ci fa
restare più invisibili che si può. 











A fare da contrasto con tutto
questo pare che in città si stia tenendo una specie di meeting internazionale,
una cosa tipo summit sulla sanità dei paesi più piccoli e sfigati del sudest
asiatico. Non siamo sicuri, ma vicino a quella del Nepal riconosciamo le
bandiere delle Maldive, del Bhutan, del Bangladesh e forse qualche altra. Di
sicuro a un certo punto spuntano dal nulla poliziotti e militari, tutti col
fischietto in bocca, tutti a spostare la gente ai lati della strada... chissà
chi deve passare, forse la papamobile, pensiamo... finchè non arrivano due
macchine (due) nere con vetri neri, precedute e seguite dalla scorta
motorizzata, che passano il ponte e in due secondi spariscono verso la
campagna. Un'occhiata veloce al motivo di tanto baccano, tempo di sistemarsi i
fardelli sulla schiena, e in altri due secondi tutti quelli che erano in strada
tornano a fare quello che dovevano fare e a portare chissà dove quello che
dovevano portare.
Prima di accompagnare Elena e
Matteo all'aeroporto e prima di scontrarci nuovamente con gli amiconi di
FlyDubai abbiamo anche il tempo di organizzare una gita in taxi a Changu Narayan.
Il tempio vero e proprio sorge in cima alla collina che sovrasta l'omonimo paesino
e per raggiungerlo si deve percorrere a piedi la salita che dal parcheggio
riservato ai veicoli risale il fianco della montagna. La passeggiata è
l'occasione per attraversare una zona sicuramente meno battuta dal turismo di
massa e per avere un assaggio di vita più o meno vera delle campagne fuori dai
grandi centri urbani. Stretti vicoli, case di mattoni costruite una addosso
all'altra, gente che sale e scende sempre con qualcosa in testa o sulla
schiena: fasci d'erba, mattoni, sterpaglie, tessuti, cesti, bidoni... ognuno ha
qualcosa da trasportare. Alle finestre lunghe file di pannocchie stanno appese
al sole. Il tempio è molto interessante, per
quello che possiamo capire dall'infarinatura di cultura locale che abbiamo, sia
per alcune strutture di particolare bellezza che per la presenza di statue e
raffigurazioni uniche e particolari, come quella di Vishnu e Garuda che compare
sulle banconote da 10 rps. La gita, trasporto compreso, non
porta via più di due ore ed è sicuramente una cosa consigliata per chi ha un
po' tempo da spendere a Bhaktapur, che da sola richiede meno di due giorni. 










A metà pomeriggio accompagnamo
Elena e Matteo in aeroporto, non tanto per sventolare i fazzoletti (li
rivedremo domani notte a Dubai), quanto piuttosto per chiarire il mistero
dell'imbarco bagagli e quello del mio nome che compare contemporaneamente su
due voli diversi. Nell'ufficio di FlyDubai
scopriamo che in effetti la compagnia mi ha arbitrariamente spostato sul volo
notturno, lasciandomi però anche su quello della sera. Il problema è che quello
notturno ci farebbe perdere la coincidenza a Dubai. E allora spiega, chiarisci,
mostra le mail, ripeti una due tre cento volte la stessa cosa alle stesse due
persone. Alla fine chiamano il loro headquarter e ci rassicurano: domani andate
pure al check-in del vostro primo volo, è tutto chiarito. Bene, grazie, molto
gentili... Chissà perchè non siamo per niente tranquilli. Vedremo domani. Quando io e Sabrina usciamo dagli
uffici è ancora giorno e allora già che siamo a Kathmandu ci facciamo portare
in centro. Voglio andare in agenzia a salutare Om. Nonostante fossimo qui pochi
giorni fa, dopo la montagna e la calma di Bhaktapur ora le vie ci sembrano meno
familiari, facciamo un po' fatica ad orientarci, non troviamo i nostri
riferimenti, sbagliamo un paio di deviazioni finchè... eccolo... il venditore
di lassi! Come un vecchio avventore da osteria ne ordino due "big",
senza neanche parlare, da dietro le teste dei passanti, col solo gesto della
mano: potessi star qui ancora un po' diventerei nepalese. Adesso la strada è
facile, ripassiamo da Durbar Square, sempre come nepalesi la attraversiamo
passando dall'angolo cieco per non pagare il biglietto, risaliamo le strade
ormai note e siamo alla via di Om. A un certo punto sentiamo dei richiami
dall'altra parte della strada, c'è uno che si sbraccia per salutarci... è il
tipo del mountain shop cui abbiamo svuotato il negozio. Quando si dice
l'affetto per la clientela. Attraversiamo la strada, ciao come va, allora il
trek, una stretta di mano e il danno è fatto: siamo di nuovo dentro. Per
fortuna riusciamo a contenere il demone e ce ne andiamo con un paio di k-way.
Om ci accoglie come vecchi amici,
sa già tutto e ci stringe la mano complimentandosi per quello che siamo
riusciti a fare. Dice che Nabaraj gli ha raccontato ogni bene di noi, che siamo
diventati amici, ci racconta la storia della sua agenzia, ci dice che in
trent'anni non gli era mai successo niente di simile, che siamo stati bravi e
che se anche fossimo arrivati a Lobuche non ci avrebbero fatto proseguire a
causa della neve, che al Khala Pattar era tecnicamente impossibile salire e
tante altre cose che ci consolano come una goccia d'acqua a uno nel forno. E'
sinceramente contento di rivederci, la sua gioia è vera e lo apprezziamo
moltissimo, e forse ci sentiamo anche un po' più in pace, come se solo adesso,
con le sue parole, avessimo davvero chiuso il trek. Ci salutiamo con tanti
abbracci e un arrivederci, magari è vero. Che belle persone abbiamo incontrato
quaggiù!
mercoledì 23 – giovedì 24 ottobre: BHAKTAPUR –
KATHMANDU – ITALIA Si torna a casa. Dopo aver fatto
indigestione di juju dhau gironzoliamo nei dintorni di Durbar Square con la
calma di chi non ha niente altro da fare, indugiando con ostentata lentezza nei
punti che ci piacciono di più, sedendo qua e là con il solo scopo di goderci
gli ultimi momenti di Nepal. 









Nel frattempo ci arrivano notizie
da Dubai: tutto ok il volo, a parte che FlyDubai ci ha fatto pagare una cifra
spropositata per l'imbarco dei bagagli (tipo 70 euro invece di 20), nonostante
il servizio clienti ci avesse assicurato il contrario, visto che il tutto era
causato da un malfunzionamento del sito della compagnia. Poco male, in fondo
sono solo soldi. Chissà cosa ci aspetterà oggi all'imbarco. E infatti... Al banco check-in
ancora un'ora di discussione per il volo cambiato, ovviamente nessuno sa
niente, stesse scene di ieri, stessi dialoghi, stesse spiegazioni... solo che non
si può parlare con l'headquarter. Che forti questi di FlyDubai. Uno mi rifiuta
l'imbarco e mi fa mettere fuori dalla fila, l'altra mi guarda, l'altro ancora
telefona... mi sembra una scena del film Argo... E mentre a un'ora dal decollo
sto pensando al modo migliore per farli secchi, la situazione chissà come si
sblocca e mi consegnano la carta d'imbarco. Avremmo perso la coincidenza.
Ritrovare i nostri compagni di
avventura tra la folla dell'aeroporto di Dubai ci sembra una cosa stranissima,
quasi come riprendere la macchina e guidare in autostrada, andando a 120
all'ora in pianura invece che a passo d'uomo in salita. Non servono molte parole per
occupare il tempo fino a casa, così come non ne servono per chiudere un diario:
le emozioni vissute insieme sono indelebili nei nostri cuori e ci riempiono
ancora oggi come se ne stessimo parlando da allora, come se le vivessimo ancora
tutti insieme, in fila indiana dietro a Nabaraj e alla sua camicina a quadretti,
passo dopo passo fin lassù, dove le montagne sono più alte delle nuvole, sul
tetto del mondo.
Per vedere tutte le
foto visita la photogallery.
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